Prepping di Stato
A lungo considerato una fissazione di individui paranoici, ora il prepping è diventato l’ideologia dei nostri tempi apocalittici.
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Se si pensa al prepper, la prima immagine che viene in mente è quella di una specie di Rambo armato fino ai denti e asserragliato in un bunker fortificato. Si tratta però di un’idea un po’ stereotipata, non più al passo con i tempi: a prepararsi al possibile collasso della civiltà ormai ci sono pure i magnati della Silicon Valley, e addirittura interi Stati. Oggi parlerò di questo.
Prima di partire, ricordo che il mio ultimo saggio Le prime gocce della tempesta è acquistabile nelle librerie (quelle indipendenti sono sempre da preferire) e nei negozi online. Sul mio profilo Instagram trovate una rassegna stampa aggiornata e le date delle presentazioni.
Il grande apagón
Ogni civiltà umana sogna la sua fine, che coincide con la fine del mondo.
E la nostra civiltà, be’, la sogna costantemente. Come ha scritto Mark O’Connell nel saggio Appunti da un’Apocalisse, “viviamo in un’epoca di scenari apocalittici. Il mondo che abbiamo ereditato pare consumato, destinato a una disfatta assoluta e definitiva”.
I segni dell’Apocalisse incipiente, del resto, sono ovunque.
Solo qualche giorno fa, la Spagna e il Portogallo hanno subito il loro più grande apagón (blackout) della storia: intorno alle 12:30 la rete elettrica ha perso 15 gigawatt, circa il 60 per cento della domanda nazionale, in appena cinque secondi.
Entrambi i paesi sono rimasti senza elettricità e senza Internet per diverse ore, e l’assenza ha mandato completamente in tilt il funzionamento delle città.
Le scene immortalate durante il blackout sembrano uscite, per l’appunto, da un film apocalittico: stazioni delle metro avvolte dall’oscurità, persone che si aggirano tra gli scaffali dei supermercati illuminati dalle torce dei cellulari, gente accalcata intorno alle radio a batteria per carpire informazioni, ingorghi mostruosi per strada e treni fermi in mezzo al nulla.
A differenza di una storia di finzione, tuttavia, le cause sono ancora sconosciute.
In un primissimo momento si era parlato di un possibile attacco informatico, ma Red Eléctrica – Ree, l’azienda che gestisce la rete elettrica spagnola – l’ha escluso.
Poi era circolata la storia della “vibrazione atmosferica indotta”, ossia un’oscillazione dell’alta tensione provocata da eventi meteorologici estremi; ma anche questa evenienza è stata ufficialmente scartata dalla Red de Eléctricas Nacionais (Ren), la società che gestisce la rete elettrica portoghese.
Un’altra ipotesi ha riguardato il ruolo delle fonti di energia rinnovabili, che coprono il 56 per cento del fabbisogno spagnolo. All’origine del blackout ci sono stati due episodi di “disconnessione” dalla rete di alcuni impianti di produzione situati in una zona della Spagna dove più della metà dell’energia prodotta è di origine fotovoltaica.
Il problema, a detta di alcuni esperti, si sarebbe verificato per “un’oscillazione eccessiva della frequenza della corrente alternata nella rete” che avrebbe fatto automaticamente staccare gli impianti. Ma anche in questo caso Ree ha negato la correlazione tra blackout e rinnovabili.
Come avviene regolarmente, l’assenza di una spiegazione definitiva è stata colmata dalla disinformazione e dalle teorie del complotto.
Da un lato i negazionisti climatici hanno preso la palla al balzo per attaccare le rinnovabili e l’“ideologia green” a cui si rifarebbe il governo di Pedro Sánchez; dall’altro sono apparsi riferimenti a “lockdown climatici” e all’Agenda 2030 – l’ultima incarnazione cospirazionista di paranoie decennali su presunti “governi unici globali” che vorrebbero instaurare un “totalitarismo socialista”.
Oltre a ciò, il blackout ha riportato l’attenzione su una questione di cui si sta dibattendo estensivamente: le nostre società sono molto più fragili di quello che pensiamo, e dunque bisogna essere preparati a ogni evenienza.
È quello che ha cercato di dire Hadja Lahbib, la commissaria europea alla gestione delle crisi, con il famigerato video sul kit di sopravvivenza; ed è quello che fa da anni chi aderisce a una specifica subcultura – quella dei prepper.
L’arte del piano B
Fondamentalmente, il prepper è la persona che si prepara a scenari catastrofici e apocalittici di vario tipo: climatici, economici, bellici, sanitari e sociali.
Come si può leggere nei vari siti dedicati o in alcune interviste, la filosofia prepper è una specie di “arte del piano B” la cui regola principale è “prepararsi sempre al peggio e sperare il meglio”.
In un’intervista a VICE Italia, un prepper italiano ha spiegato che “tutto nasce dalla preoccupazione, vissuta in maniera razionale e non paranoica, che qualcosa nella nostra quotidianità possa andare storto e manchino temporaneamente i servizi della società moderna”.
La preparazione può avvenire in vari modi: accumulando scorte di cibo a lunga conservazione e attrezzatura tecnica di vario tipo, e imparando tecniche di sopravvivenza in scenari urbani e naturali.
Il prepping è infatti un fenomeno eterogeneo e multidisciplinare che include cartografia, orientamento, escursionismo, medicina e primo soccorso, bushcrafting e passione per la gear tattica.
Le radici della disciplina affondano nella Guerra Fredda: nasce tra l’Europa del Nord e gli Stati Uniti, come variazione autonoma dei programmi di difesa civile in vista di una possibile guerra nucleare con l’Unione Sovietica.
Negli Settanta si diffonde soprattutto negli ambienti libertariani, grazie alla newsletter The Survivor di Kurt Saxon – uno scrittore che aveva militato nella John Birch Society (un’associazione anticomunista di estrema destra), nel Partito Nazista Americano e nella chiesa di Scientology.
Tra la fine degli anni Ottanta e Novanta il prepping viene invece progressivamente associato al movimento dei patrioti – una rete informale di milizie antigovernative – e assume tinte prevalentemente estremiste, apocalittiche e survivaliste.
Questa nomea sopravvive in parte ancora oggi: nella cultura pop (basti pensare a Leave The World Behind o The Last of Us), i prepper sono spesso raffigurati come persone socialmente isolate, dedite al culto delle armi, paranoiche e ossessionate dalle cospirazioni del “Nuovo Ordine Mondiale”.
La pandemia di Covid-19, le catastrofi naturali accelerate dalla crisi climatica e le tensioni geopolitiche hanno però cambiato questa percezione, contribuendo allo sdoganamento e alla normalizzazione del prepping presso fasce più ampie della popolazione.
Nelle fasi iniziali dell’emergenza sanitaria, ad esempio, un altro prepper italiano ha raccontato (sempre a VICE Italia) che
ci prendevano per i paranoici di turno, poi di colpo ho iniziato a ricevere telefonate da gente che mi chiedeva cosa comprare. Ma se vuoi fare le scorte, non le fai nei momenti di caos, [quando] si comprano sciocchezze spendendo una fortuna. Il panico dell’ultimo minuto è esattamente ciò che andrebbe evitato.
A riprova della crescente popolarità del prepping, negli ultimi anni sono emerse diverse varianti.
Una è la versione anarchica, che è più inclusiva rispetto a quella survivalista di destra ed è opposta all’approccio statale che – si legge in un articolo sulla rivista Red Pepper – “ha come la priorità la continuità governativa piuttosto che la continuazione della vita umana”.
Più recentemente, sempre negli Stati Uniti, il prepping è stato adottato anche da piccole parti della comunità afroamericana in funzione difensiva, anti-razzista e anti-trumpiana.
“Penso che sia molto importante che le persone di colore siano armate e pronto a tutto”, ha detto una prepper intervistata dal magazine Capital B, “perché purtroppo con questo presidente, un po’ com’era successo la prima volta, c’è da avere paura”.
L’Ur-fascismo della fine dei tempi
Non è finita qui: esiste poi un prepping di lusso – riservato cioè a ricchi, super-ricchi e ultra-ricchi.
Sempre più aziende vendono bunker accessoriati di tutto punto, costruiti dentro vecchi silos militari dismessi e dotati dei confort per sopravvivere comodamente al collasso della società.
Peter Thiel – co-fondatore di PayPal, nonché esponente di punta della corrente tech-reazionaria – ha provato a costruire un mega-bunker personale in una zona sperduta della Nuova Zelanda, ma le autorità hanno bloccato il progetto perché avrebbe avuto un impatto ambientale devastante.
Altri magnati della Silicon Valley, prendendo ispirazione dal concetto di network state dell’imprenditore Balaji Srinivasan, vorrebbero edificare intere città-stato fortificate, riservate a pochi eletti, rette sulle criptovalute e sull’intelligenza artificiale e totalmente al di fuori della giurisdizione statale.
In tal senso, la ricchezza e l’avanzamento tecnologico – ha sottolineato Douglas Rushkoff nel libro Solo i più ricchi – servono ai magnati per “isolarsi dai pericoli concreti e reali del cambiamento climatico, delle migrazioni di massa, delle pandemie e dell’esaurimento delle risorse”.
Per loro, chiosa l’autore e teorico dei media statunitense, “il futuro della tecnologia riguarderà soltanto una cosa: come fuggire da tutti noi”.
Non a caso, per i broligarchi alla Elon Musk la Terra non basta più; affinché la specie umana sopravviva bisogna colonizzare e terraformare (ossia rendere abitabile) Marte.
Peccato che questa fantasia escapista sia del tutto “irrilevante” per la popolazione mondiale e per le sfide che l’umanità deve affrontare adesso. Secondo Kim Stanley Robinson, l’autore della celebre Trilogia di Marte, i piani di Musk rappresentano un “azzardo morale” poiché creano “l’illusione di poter distruggere la Terra e cavarsela comunque: non è affatto così”.
C’è poi un’ultima forma di prepping, la più preoccupante e insidiosa: quella di Stato, legata al “fascismo della fine dei tempi” (o “fascismo apocalittico”).
Questa espressione è stata coniata in un recente approfondimento di Naomi Klein e Astra Taylor. Le due autrici hanno preso spunto dall’Ur-fascismo di Umberto Eco e in particolare dal “complesso di Armageddon”, che l’intellettuale italiano aveva descritto in questo modo:
[per l’Ur-fascismo] la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo.
Klein e Taylor sostengono che l’estrema destra contemporanea – da Trump a Orbán, per intenderci – non abbia però alcuna grande visione per un futuro post-Armageddon, a differenza dei totalitarismi degli anni Trenta.
Al contrario: proprio perché siamo immersi in tante crisi che le destre autoritarie non hanno la minima intenzione o capacità di risolvere, la loro “ideologia di fondo è diventata un mostruoso survivalismo suprematista”.
La nazione deve dunque tramutarsi in un enorme bunker-fortezza, preclusa a tutti i nemici interni ed esterni – come i giudici che non si piegano ai diktat dell’amministrazione Trump, oppure gli attivisti pro-Palestina.
Esattamente come fanno i singoli individui, anche lo Stato-prepper fa incetta di risorse. Ma lo fanno su scala planetaria, adocchiando il canale di Panama, i minerali dell’Ucraina, le rotte della Groenlandia, l’acqua del Canada, e così via.
“Non servono più le vecchie foglie di fico coloniali dell’esportazione della democrazia o della parola di Dio”, scrivono Klein e Taylor. “Quando Trump scandaglia avidamente il mondo, lo fa con il fine di accumulare scorte per fronteggiare il collasso della civiltà”.
Paradossalmente, il “fascismo della fine dei tempi” è una profezia che si autoavvera: più l’amministrazione Trump smantella le strutture statali progettate per rispondere alle emergenze e più foraggia le industrie che stanno rendendo inabitabile il pianeta, più fatalmente si rafforza il prepping e si creano opportunità private di lucrare sulla mancanza di protezione collettiva.
Come scrive Mark O’Connell, “i prepper non si stanno preparando per le loro paure: si stanno preparando per le loro fantasie”.
Da questo punto di vista, insomma, l’Apocalisse è un ottimo affare – almeno per chi se lo può permettere.
Articoli e cose notevoli che ho visto in giro
A proposito di fascismo apocalittico e dintorni: in queste settimane è uscito un libro di Richard Seymour che si occupa di “nazionalismo catastrofista” e della fascinazione dei conservatori per il collasso (Nathan Taylor Pemberton, The Nation)
L’amministrazione Trump ha preso di mira gli esperti di disinformazione, che osano mettere i bastoni tra le ruote al suo progetto di trasformare la fantasia in realtà (Dean Jackson e Prithvi Iyer, Tech Policy Press)
Tesla, che prosegue la sua picchiata nelle vendite e in borsa, starebbe pensando di rimpiazzare Elon Musk con un altro amministratore delegato (Emily Glazer, Becky Peterson e Dana Mattioli, Wall Street Journal)
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Bel pezzo, complimenti!
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