La madre di tutte le teorie del complotto
La storia dei “Protocolli dei Savi di Sion”, il più clamoroso falso complottista della storia moderna che circola - e fa danni - da oltre un secolo.
Benvenute e benvenuti alla puntata #15 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie delle complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Se ci si occupa di complottismo, non si può fare a meno di occuparsi dei Protocolli dei Savi di Sion. Prima o poi, infatti, spunteranno fuori – sia in forma diretta, che indiretta. E se più o meno tutti sanno vagamente di cosa si tratta, la loro storia e la loro perdurante poplarità nel corso di oltre un secolo è davvero incredibile, e merita di essere raccontata.
Oggi proverò a farlo, ma prima di partire devo fare un annuncio: sto scrivendo un libro sulle teorie del complotto, in parte basato su questa newsletter. Dovrebbe uscire tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. Vi terrò aggiornati :)
I Protocolli della Polizia del Campidoglio
Zach Fisch è il portavoce del deputato Mondaire Jones, il primo afroamericano gay eletto (insieme a Ritchie Torres) al Congresso statunitense alle ultime elezioni. Verso le sette di pomeriggio del 14 marzo 2021, come ogni giorno, Fisch sta uscendo dal Campidoglio quando nota alcuni fogli appoggiati sul tavolo del posto di guardia di polizia.
In uno di questi ci sono delle tabelle: probabilmente sono i turni della settimana. In un altro plico, tenuto insieme da un fermacarte, campeggia un titolo in rosso che recita “The Protocols of the Learned Elders of Zion”, I Protocolli dei Savi di Sion. Ossia il testo fondante dell’antisemitismo moderno.
Fisch, che è ebreo, è “inorridito”. Fotografa il tavolo e manda gli scatti al Washington Post, che a sua volta gira il materiale alla responsabile della polizia del Campidoglio Yogananda D. Pittman. Le conseguenze sono immediate: viene aperta un’indagine interna e l’agente in servizio in quel momento è sospeso.
“Prendiamo sul serio le accuse di comportamenti scorretti”, dice Pittman. Specialmente dopo l’assalto del 6 gennaio 2021, durante il quale alcuni agenti erano stato ripresi mentre si facevano selfie con gli assalitori o li lasciavano passare – compreso quello che indossava la felpa con la scritta “Camp Auschwitz”. Almeno 35 poliziotti sono finiti sotto indagine, e sei sono stati sospesi fino alla conclusione degli accertamenti.
Anche alla luce di questo precedente, per Fisch il ritrovamento dei Protocolli rappresenta “un problema di sicurezza nazionale e di sicurezza sul posto di lavoro”.
Dopotutto “il nostro ufficio è pieno di persone – nere, marroni, ebree e queer – che hanno fondate ragioni di temere i suprematisti”, scrive su Twitter. “E se [la polizia del Campidoglio] è l’unica barriera che ci separa dalla folla che abbiamo visto il 6 gennaio, come possiamo sentirci al sicuro?”
Ma questa non è l’unica domanda suscitata da un episodio del genere. Perché, si chiede sempre Fisch, “l’agente si sentiva a suo agio nel lasciare quel testo in bella vista?” E dal momento che i fogli – scaricati dal sito antisemita Bible Believers Church – erano vistosamente consumati, “quante volte sono stati passati in giro?” E ancora: “quanti altri poliziotti del Campidoglio condividono quelle idee?”
Se al momento non ci sono risposte ai quesiti di cui sopra, almeno una certezza c’è: a più di cento anni dalla loro prima pubblicazione, i Protocolli continuano a spuntare fuori nei posti più inaspettati ed esercitare ancora la loro malevola influenza sul presente – nonostante la storia che si portano dietro.
Licenza per un genocidio
Come ha scritto Mark Fenster, “al centro di ogni teoria del complotto c’è una storia avvincente e drammatica”. E i Protocolli sono l’esempio per eccellenza di questo assunto.
Nel testo, presentato come il resoconto di una riunione segreta, i cosiddetti “Savi” dettagliano in ventiquattro protocolli una gigantesca cospirazione per ingannare i goyim (i gentili), dominare il mondo e instaurare una teocrazia ebraica – soprattutto attraverso la subdola diffusione di idee liberali, il controllo delle masse attraverso media e finanza, e la contestazione delle autorità tradizionali.
La prima pubblicazione parziale dei Protocolli risale al 1903, sul quotidiano russo di San Pietroburgo Znamja (“La bandiera”). La versione estesa compare due anni dopo nell’appendice del libro Il grande nel piccolo: la venuta dell'Anticristo e il Regno di Satana sulla Terra scritto dal mistico russo Sergej Nilus.
L’origine del testo risale alla fine dell’Ottocento, tra il 1897 e il 1899. La paternità non è chiarissima, ma è tendenzialmente attribuita all’agente Matvei Golovinski della sezione di Parigi dell’Ochrana (la polizia segreta zarista). Il quale ha abilmente mescolato passaggi di Dialoghi all’Inferno tra Machiavelli e Montesquieu – scritto dell’autore satirico francese Maurice Joly – con il romanzo Biarritz dello scrittore Hermann Goedsche, usciti tra il 1864 e il 1868.
L’obiettivo del falso fabbricato dei servizi zaristi era quello di fomentare sentimenti antisemiti – che spesso sfociavano in pogrom – nella Russia imperiale. All’epoca, però, i Protocolli non erano ancora molto conosciuti. Lo saranno decisamente di più dal 1917 in poi, quando i fuoriusciti zaristi li diffondono nel mondo occidentale e li usano per screditare la Rivoluzione – sostenendo che fosse stata organizzata da cospiratori “giudeo-bolscevichi”.
Il 1920 è l’anno della consacrazione per i Protocolli: svariate edizioni appaiono in Polonia, Francia (dove trova terreno fertile grazie agli strascichi dell’affaire Dreyfus), Palestina, Siria, Regno Unito, e Stati Uniti. A portarli negli Usa è il magnate Henry Ford, che pubblica sul suo settimanale Dearborn Independent una versione americanizzata chiamata The International Jew (“L’ebreo internazionale”) – a sua volta tradotto in una dozzina di lingue.
All’incirca nello stesso periodo escono anche le prime inchieste che smontano i Protocolli. Il giornalista e diplomatico britannico Lucien Wolf ricostruisce il plagio nell’opera The Jewish Bogey and the Forged Protocols of the Learned Elders of Zion; e lo stesso faranno il giornalista inglese Phillip Graves sul Times, il cronista americano Herman Bernstein sul New York Herald e il tedesco Benjamin Segel.
Nonostante questi lavori – e la retromarcia di Ford, che nel 1927 ripudia “L’ebreo internazionale” (pur rimanendo un antisemita convinto) – i Protocolli vengono generalmente considerati autentici e attecchiscono in tutta Europa. Ma c’è un paese in cui lo fanno più di ogni altro: la Germania.
L’intensità e la velocità del collasso post-bellico, argomenta David Redles nel saggio The Paranoid Apocalypse:A Hundred-Year Retrospective on the Protocols of the Elders of Zion, hanno portato vaste fasce della popolazione a cercare una spiegazione per il caos in cui versava la Repubblica; tanti l’hanno trovata nella cospirazione “giudeo-bolscevica”, e quindi nei Protocolli. Inclusi, fatalmente, Adolf Hitler e i gerarchi nazisti.
Il Führer era ossessionato dai Protocolli, al punto tale da metterli al centro dell’ideologia nazionalsocialista. Se gli ebrei erano in grado di ordire una simile cospirazione per soggiogare il mondo – come sostiene il testo (pubblicato in ben 23 edizioni fino alla Seconda Guerra Mondiale) – allora la questione era tutto sommato semplice: o noi, gli ariani; o loro.
In questo senso, secondo la celebre definizione dello storico Norman Cohn, per i nazisti i Protocolli sono stati la “licenza per un genocidio”.
Un falso che rifiuta di morire
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah, almeno in Europa, I Protocolli dei Savi di Sion sono stati di fatto banditi dal discorso pubblico. A quel punto, infatti, più o meno tutti sapevano che si trattava di un falso decisamente pericoloso.
Altrove non è andata così. Al contrario, i Protocolli hanno continuato a essere percipiti come un testo “genuino” e veritiero – e dunque utili per un certo tipo di propaganda antisemita.
Come ricostruisce l’Anti-Defamation League, solo tra il 1965 e il 1967 sono usciti più di 50 libri ispirati dai Protocolli – o che ne contenevano brani interi – in vari paesi arabi. Nel 1980 il delegato della Giordania alle Nazioni Unite, Hazern Nuseibeh, ha parlato del testo come se fosse autentico. Nel 1987, l’ambasciata iraniana in Brasile ha distribuito delle copie dei Protocolli sostenendo che “appartengono alla storia del mondo”.
Sempre nella seconda metà degli anni Ottanta, in Giappone, lo scrittore Masami Uno – un fondamentalista cristiano e antisemita – ha pubblicato due libri sulle presunte malefatte degli ebrei nel paese, basandosi ovviamente sui Protocolli; in poco più di dodici mesi sono diventati dei bestseller, vendendo più di un milione di copie. In Russia sono invece rispuntati in concomitanza con il crollo dell’Unione Sovietica: un movimento ultranazionalista e neonazista, Pamyat, li ha ripubblicati nel 1992.
A partire dagli anni Novanta, i Protocolli sono ricomparsi in varie forme nel mondo occidentale – e non solo negli ambienti dell’estrema destra, dove non erano mai scomparsi. Nel 1991 sono riprodotti integralmente in due libri molto particolari: il primo è Behold a Pale Horse di Bill Cooper, di cui ho raccontato la storia qualche puntata fa; mentre il secondo è di un certo Gyeorgos Ceres Hatonn, che si descrive come un extraterrestre alto 2 metri e mezzo proveniente dalle Pleiadi.
A proposito di alieni: non possono mancare i rettiliani. Il “supercomplotto” di David Icke (anche di lui ne ho scritto tempo fa) non è apertamente antisemita, ma secondo diversi critici incorpora elementi narrativi dei Protocolli. Lo stesso Icke, d’altronde, li considera un “documento storico” e ha difeso a spada tratta alcuni negazionisti dell’Olocausto.
Con l’avvento di Internet e dei social, i Protocolli hanno avuto altre vite: da un lato sono diventati molto più accessibili di quanto non lo fossero mai stati prima; e dall’altro – come ha fatto Icke – sono stati riciclati in maniera molto più subdola.
Il documentario complottista del 2007, Zeitgeist, tra la varie cose si concentra ad esempio sul sistema monetario internazionale; peccato che lo faccia prendendo spunto dai libri di autori antisemiti, finendo con il presentare antichi stereotipi senza pronunciare il termine “ebreo” – che altrimenti renderebbe inaccettabile il tutto.
La stessa strategia di mascheramento si scorge anche in espressioni, ormai entrate nel lessico della destra occidentale, come “finanza apolide”, “banchieri internazionali” o “globalisti”: è evidente che chi le usa evoca l’immagine dell’ebreo che trama nell’ombra e si arricchisce raggirando le persone comuni. Questa tattica è stata ovviamente portata all’estremo con il finanziere e filantropo George Soros, che per molti è l’incarnazione contemporanea dell’”ebreo internazionale” di Ford.
Negli ultimi anni, inoltre, i Protocolli sono letteralmente entrati in diversi parlamenti nazionali europei. In Polonia Antoni Macierewicz, ex ministro dell’interno e vicepresidente del partito Diritto e Giustizia (PiS), ha dichiarato di aver trovato “interessante” il testo; in Grecia, il deputato neonazista di Alba Dorata Ilias Kasidiaris ha letto in aula alcuni passaggi del Protocollo 19; e in Italia, il parlamentare del Movimento 5 Stelle Elio Lannutti li ha promossi sul suo profilo Twitter.
I Protocolli, insomma, sembrano non morire mai; e anzi, col passare del tempo sono diventati una sorta di “testo aperto” – un canovaccio su cui imbastire, be’, qualsiasi altra teoria del complotto.
La loro sorprendente persistenza ha diverse cause. Una va rintracciata nel modo in cui sono stati concepiti: “la costruzione del complotto nasce usando materiali veri e conosciuti, ma montandoli in modo da suscitare il sospetto”, ha detto Umberto Eco in un’intervista sul suo libro Il cimitero di Praga, che romanza l’origine dei Protocolli.
Un’altra sta nel meccanismo di proiezione psicologica che scatta in chi li prende per veri. I Savi di Sion lavorano nell’ombra e sfruttano i valori del liberalismo per distruggerlo dall’interno; il che, stringi stringi, è esattamente l’obiettivo degli antisemiti e degli estremisti di destra. “Negli ebrei malvagi [dei Protocolli],” ha scritto Edward Rothstein sul New York Times, “gli antisemiti vedono ciò che vorrebbero essere loro stessi”.
Infine, c’è una motivazione piuttosto paradossale. Essendo una forma di “conoscenza stigmatizzata” in diverse parti del mondo, sostiene il professore Michael Barkun, “il discredito che li ricopre è proprio la caratteristica che li rende attraenti.”
Del resto, come diceva l’antisemita britannica Nesta Weber, “sarà un falso: ma è un libro che dice esattamente ciò che ebrei pensano, quindi è vero”.
Articoli e cose notevoli che ho visto questa settimana:
Su Amazon si possono trovare un sacco di libri complottisti sul coronavirus, e l’algoritmo te li suggerisce pure (Craig Silverman, BuzzFeed)
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La settimana prossima la newsletter non uscirà. Tornerà però quella successiva con un approfondimento su una teoria basata in larga parte sui Protocolli dei Savi di Sion: quella del “marxismo culturale”.
Per la questione filologica ti consiglio questo libro (se non lo conosci già): https://www.ibs.it/manoscritto-inesistente-protocolli-dei-savi-libro-cesare-g-de-michelis/e/9788831770750