Il padrino del complottismo moderno
La strana e incredibile storia di Bill Cooper, il “principe della paranoia” che ha influenzato le teorie del complotto degli ultimi vent’anni.
Benvenute e benvenuti alla puntata #10 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie delle complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Come ho già accennato negli episodi precedenti, nessuna teoria del complotto è davvero nuova o originale – la differenza la fa il modo in cui si assemblano le varie fonti. E il protagonista di oggi è colui che, più di ogni altro, ha fornito un intero arsenale di metodi e idee al complottismo contemporaneo.
Anche se il suo nome è molto poco conosciuto in Italia e in Europa, le sue impronte sono ancora dappertutto e la sua influenza è più tangibile che mai.
Una morte annunciata (dallo stesso morto)
Il dottore Scott Hamblin è cresciuto nella piccola cittadina di Eagar, situata nella contea di Apache in Arizona. Da bambino aveva un posto preferito dove guardare i temporali: una collina alla fine di una via sterrata. Ora che è tornato, dopo aver vissuto fuori città per parecchi anni, vuole mostarlo alla moglie e alle figlie.
In una tranquilla giornata del luglio 2001 fa una gita fuori porta con la sua famiglia e parcheggia in quel punto. Poco dopo appare un pickup, che arriva a velocità sostenuta. È dell’uomo che vive nella casa sulla collina – una persona dalla reputazione piuttosto sinistra in paese. Hamblin fa salire i familiari in macchina e si allontana.
L’uomo li tallona per chilometri, seguendoli fino al vialetto di fronte alla loro abitazione. A quel punto scende dal veicolo e comincia a minacciare il medico a voce alta, premendogli un dito contro il petto: deve stare alla larga dalla collina, e soprattutto deve smettere di spiarlo. Hamblin scaccia la mano dell’uomo, e spiega di non aver alcun motivo per spiarlo dato che non ha idea di chi sia.
L’uomo estrae una pistola e la punta in testa al dottore: “Dovresti sapere chi sono”, dice. Prima di allontanarsi definitivamente rinnova la minaccia: “Stai lontano dalla collina”.
Hamblin chiama subito la polizia di Eagar. Dal tono della conversazione capisce però che gli agenti – per qualche motivo – sono riluttanti a intervenire. Il medico allora si rivolge all’ufficio dello sceriffo della contea di Apache, che apre all’istante un fascicolo d’indagine per aggressione. Era l’occasione che aspettavano da anni.
L’uomo che abita nella casa sulla collina ha 58 anni e si chiama Milton William Cooper, detto “Bill”: è un conduttore radiofonico complottista, noto nell’ambiente delle milizie dell’Arizona, sul quale pende un mandato d’arresto per evasione fiscale.
Dal 1998, infatti, Cooper ha smesso di pagare le tasse – ritendo “illegittime” le pretese dell’Internal Revenue Service (Irs, l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate) – e si è barricato nell’abitazione insieme alla moglie e ai figli. Le forze dell’ordine locali e federali si limitano a sorvegliarlo, perché temono uno scontro armato – e quindi la replica dei disastri di Ruby Ridge e Waco all’inizio degli anni Novanta.
La strategia, ha scritto un agente dell’Fbi in un rapporto interno, è di “farlo bollire nel suo brodo”. Di fatto, Cooper è posto agli arresti domiciliari. Dal 1999 rimane anche solo: la moglie lo lascia, portando con sé i bambini (Cooper, dal canto suo, dirà di aver allontanato la famiglia per “proteggerla”).
Questo equilibrio molto precario dà fastidio allo sceriffo della Contea, che dopo l’aggressione a Hamblin decide che non si può più rimandare l’arresto. La data fissata per l’operazione è il 5 novembre del 2001, intorno a mezzanotte: i vicesceriffi si appostano con l’auto sulla collina e iniziano a mettere musica a tutto volume, simulando una festa improvvisata.
L’idea è quella di attirare Cooper e arrestarlo non appena mette un piede fuori dall’abitazione. L’uomo raggiunge i vicesceriffi, ma inaspettatamente non scende dal pickup; il piano salta subito, e ai poliziotti non resta che inseguirlo. Quando Cooper capisce che non riuscirà a raggiungere in tempo la porta di casa, si gira e comincia a sparare: l’agente Robert Marinez è colpito alla testa e cade a terra (sopravviverà restando paralizzato a vita), mentre il collega Joseph Goldsmith svuota il caricatore su Cooper – uccidendolo con un colpo al cuore e uno alla testa.
Non doveva finire così. O forse sì, doveva andare così. “Signore e signori, mi uccideranno”, aveva previsto Cooper giusto qualche mese prima, “arriveranno qui di notte e mi faranno fuori sul pianerottolo”.
In sella al cavallo pallido
Degli anni formativi di Bill Cooper non si sa molto. Quello che si sa l’ha raccontato lui stesso, e quindi non è del tutto affidabile.
Nato a Long Beach il 6 maggio del 1943, dopo il college si arruola nell’esercito e nel 1972 viene spedito in Vietnam dove presta servizio presso la marina – più precisamente alle dipendenze dell’ammiraglio Bernard A. Clarey, che si occupa di intelligence militare.
Rovistando nell’archivio del suo superiore, Cooper sostiene di aver letto documenti sconvolgenti che spaziano dagli accordi segreti tra Cia e Kgb all’esistenza di un patto segreto tra l’amministrazione americana e gli alieni, passando per un’incredibile teoria sul vero assassino del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Dimenticatevi di Lee Harvey Oswald, o del cecchino appostato sulla collinetta erbosa lungo il percorso della parata: il responsabile è l’autista della macchina. Il quale si è semplicemente girato e ha ucciso JFK con una “pistola speciale” sviluppata dagli extraterrestri, capace di eliminare ogni traccia.
Una volta tornato in patria Cooper prova a contattare un giornalista per rivelargli alcune delle sue scoperte. Ma non ci riuscirà: in quel periodo rimane vittima di un grave incidente in moto causato, a suo dire, da una “limousine nera” (di cui nessuno troverà mai traccia).
I medici sono costretti ad amputargli la gamba destra poco sopra il ginocchio. Mentre è in convalescenza viene visitato da due uomini che gli chiedono se ha “imparato la lezione”. Cooper risponde che d’ora in poi si “comporterà bene”, ma in realtà mente: anche il mondo deve sapere i segreti di cui lui è a conoscenza. E presto li saprà.
Nella prima metà degli anni Ottanta l’uomo si avvicina ai circuiti di ufologi, che all’epoca sono in grande espansione. Collabora anche con la newsletter pubblicata da Gray Barker, autore di diversi libri sul tema e inventore della figura dei “Men in Black”, e partecipa a diversi convegni in vari stati degli Usa.
Alla fine del decennio ha un’intuizione decisiva: fonde le teorie del complotto sugli Ufo con quelle sul Nuovo Ordine Mondiale e gli Illuminati, creando così un super-complotto molto cupo e apocalittico in grado di uscire dal perimetro dell’ufologia.
Attraverso la sua attività di conferenziere entra poi in contatto la proprietaria di una piccola casa editrice New Age, Melody O’Ryin Swanson, che gli propone di scrivere un libro. Cooper accetta, e nel 1991 esce quella che rimarrà la sua unica opera.
Il libro si chiama Behold a Pale Horse – “Ecco il cavallo pallido”, citazione di un passaggio dell’Apocalisse di Giovanni in cui appare la Morte – ed è un testo, be’, decisamente strano. Delle oltre cinquecento pagine che lo compongono, Cooper ne ha scritto la metà; il resto sono ritagli, riproduzioni di documenti e inserti integrali di altri testi, come i Protocolli dei Savi di Sion.Per respingere le accuse di antisemitismo, l’autore chiede al lettore di sostituire il termine “ebrei” con “Illuminati”.
Il capitolo più famoso è il primo, intitolato Silent Weapons for Quiet Wars (“Armi silenziose per guerre tranquille”), in cui Cooper delinea un complicatissimo complotto planetario che va avanti da secoli. Nel libro c’è comunque spazio per qualsiasi teoria del complotto – incluse quelle sull’Hiv come virus “ingegnerizzato” per decimare la popolazione nera, gay e ispanica. Incredibilmente, quel passaggio sull’Aids sarà usato nel 2000 dalla ministra della sanità del Sud Africa per dimostrare una presunta cospirazione ai danni del paese.
A ogni modo, Behold a Pale Horse diventa quasi all’istante un oggetto di culto. Cooper non solo intercetta il “movimento dei Patrioti” e gli ambienti complottisti-ufologici, ma persino la comunità afroamericana della costa Est, quella carceraria (a oggi è uno dei libri più letti nelle prigioni federali) e il mondo dell’hip hop – tra cui nomi di primissimo piano come il Wu-Tang Clan, Tupac Shakur, Busta Rhymes, Public Enemy, Mobb Deep e Jay-Z.
Il rapper Andrew Kissel, che ha scelto come nome d’arte “William Cooper”.
Secondo il rapper Ol’ Dirty Bastard del Wu-Tang Clan – intervistato poco prima di morire dal giornalista Mark Jacobson, autore dello splendido Pale Horse Rider (da cui ho tratto la maggior parte del materiale per questa puntata) – il libro ha avuto una diffusione tale presso gli afroamericani e i carcerati per un motivo all’apparenza molto semplice:
Nel mondo tutti vengono fottuti da qualcuno. Bill Cooper ti spiega chi ti sta fottendo. E per i tipi come me è una cosa importante da sapere.
Un minuto a mezzanotte
Nonostante l’incredibile successo editoriale, il media preferito da Cooper è la radio. Nel 1992, un anno dopo l’uscita di Behold a Pale Horse, parte il programma The Hour of the Time (“L’ora del tempo”). Come scrive Jacobson, il suo orologio indica sempre un minuto prima della mezzanotte – cioè poco prima della fine.
Tutto quello che vi hanno raccontato è un’illusione, ripete spesso Cooper. Se pensi che poteri oscuri stiano tramando alle tue spalle, be’, è esattamente ciò che stanno facendo. Bisogna smettere di essere delle “pecore” e svegliarsi una volta per tutte, perché questa volta non c’è più tempo.
Dalla sua casa sulla collina di Eagar, Cooper analizza l’attualità in un crescendo di paranoia – aggravata dall’abuso di alcool – e accumula un seguito piuttosto nutrito. Tra i sostenitori più accaniti spicca Alex Jones, il fondatore di InfoWars (la più importante media company complottista del mondo), che all’epoca muoveva i suoi primi passi ispirandosi al suo idolo.
Cooper però lo odia e non perde occasione di attaccarlo: lo ritiene un bugiardo e un truffatore, uno che cerca di copiare il suo stile senza avere l’intelligenza e l’onestà per farlo. Il conduttore di The Hour of Time, in effetti, non si mette mai sul piedistallo: al contrario, invita gli ascoltatori a informarsi autonomamente e “mettere in discussione tutto” – Cooper compreso. “Non sono un profeta, non sono Nostradamus, non ho una sfera di cristallo,” spiega, “sono solo un tizio qualunque”.
Tuttavia, l’aura che lo circonda è proprio quella di “profeta”. In Behold a Pale Horse aveva ad esempio “previsto” la strage di Columbine otto anni prima, nonché l’avvento di una società in cui le carte di credito –l’ennesimo strumento degli Illuminati per tenere sotto controllo la popolazione – avrebbero soppiantato il contante.
La sua “profezia” più celebre è senz’ombra di dubbio quella sugli attentati alle Torre Gemelle, fatta il 28 giugno del 2001. Cooper commenta la famigerata intervista della CNN a Bin Laden, sottolineando l’assurdità del tutto: se i servizi americani lo stavano cercando in capo al mondo, com’è possibile che una troupe di giornalisti l’abbia trovato così facilmente?
Questo significa soltanto due cose: “o le agenzie di intelligence e il governo degli Stati Uniti sono pieni di idioti e inetti, oppure ci stanno mentendo”. E Cooper non ha il minimo dubbio: ci stanno prendendo in giro, perché Bin Laden è una “creatura” della Cia. “Tenetevi pronti”, avverte, “perché succederà qualcosa di terribile in questo paese. Quando daranno la colpa a Bin Laden, non credeteci nemmeno per un secondo”.
L’11 settembre del 2001 Cooper rimane in onda per dieci ore consecutive. È sconvolto, arrabbiato e pure ubriaco. Guardando e riguardando il video dell’attacco, esclama in diretta che gli aerei non possono aver fatto crollare le Torri in quella maniera – deve trattarsi di una “demolizione controllata” dal governo americano, una teoria che rimarrà sempre al centro del movimento cospirazionista sull’11/9.
Ovviamente, come dice Jacobson, Cooper non eccelleva nel predire i grandi eventi; piuttosto, era formidabile nell’anticipare le teorie del complotto sui grandi eventi: nel senso che stava sempre qualche passo avanti rispetto agli altri complottisti, e per questo aveva la capacità di influenzarli.
Dal pensiero di Cooper sono infatti venuti fuori tanti filoni e germinate altrettante figure: Alex Jones, e quindi il complottismo mediatico professionalizzato, è uno di questi; un altro è il sottogenere delle false flag; e un altro ancora, secondo i giornalisti Richard Ruelas e Rob O'Dell dell’Arizona Republic, è QAnon.
Dopotutto anche Cooper, come l’utente anonimo Q che ha dato il via alla teoria, sosteneva di essere una specie di “gola profonda”; e come Q, anche lui diceva di essere in possesso della Q Clearance (un’autorizzazione governativa per l’accesso a fonti riservate). Non è affatto un caso che Cooper sia noto ai seguaci di Q. Specialmente uno: Jacob Chansley, lo “sciamano” attualmente in carcere per aver assediato il Congresso, è un grande fan di Behold a Pale Horse.
Di sicuro, la sua morte violenta – in un certo senso cercata, evocata e agognata da lui stesso – non ha fatto altro che cementare il suo status di “martire” che ha sacrificato la vita per le sue idee. Ancora adesso il suo libro è uno dei più rubati nelle librerie della catena Barnes & Noble, e le clip di The Hour of Time hanno milioni di visualizzazioni su YouTube.
Bill Cooper avrà pur lasciato questo mondo, insomma, ma negli ultimi vent’anni siamo noi ad essere finiti nel mondo di Bill Cooper.
Articoli e cose notevoli che ho visto questa settimana:
Una dettagliatissima inchiesta sui “super-diffusori” della teoria del coronavirus creato in laboratorio (a cura di DFRLab e Associated Press)
Secondo un sondaggio della ong antirazzista Hope not Hate, il 39% degli italiani crede – in un modo o nell’altro – che l’immigrazione sia un “complotto delle élite (Ruby Lott-Lavigna, VICE)
Un ritratto del conduttore di estrema destra Rush Limbaugh, morto questa settimana, e dell’eredità tossica che lascia dietro di sé (Zack Beauchamp, Vox)
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La prossima settimana tornerò su un concetto di cui ho già parlato nella puntata su Icke e i rettiliani: quello della conspiritualità, cioè l’unione tra complottismo e spiritualità, e il suo legame con la pandemia.