Uomini che picchiano le donne
La pugile algerina Imane Khelif è stata colpita da una feroce campagna d’odio transmisogino, alimentata da notizie false e da “transvestigazioni” di ogni tipo.
Benvenute e benvenuti alla puntata #79 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie del complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
La pugile algerina Imane Khelif ha vinto la più difficile medaglia d’oro olimpica nella storia della boxe femminile. Oltre a doversi confrontarsi con le avversarie, Khelif è stata l’oggetto di una ferocissima campagna d’odio transmisogino basata su notizie false, speculazioni infondate e offese personali. Oggi la ripercorrerò in dettaglio.
Prima di partire, segnalo due miei recenti articoli: uno è sulla suggestione del “cesarismo rosso” della destra trumpiana per Tempolinea, la newsletter di Iconografie; l’altro è un approfondimento sulla “città dei 15 minuti” per la rivista Quants.
Ricordo sempre che è uscito il mio ultimo saggio Le prime gocce della tempesta. Si può acquistare nelle librerie (quelle indipendenti sono sempre da preferire) e nei negozi online. Sul mio profilo Instagram trovate una rassegna stampa aggiornata e le date delle presentazioni, che aggiorno man mano.
Con questa puntata la newsletter va in pausa estiva; ci risentiamo a settembre!
L’asse Corvaglia-Rowling-Trump
Le vie della disinformazione sono infinite – talmente infinite che portano a Maddalena Corvaglia. Sì, l’ex velina Maddalena Corvaglia.
Qualche giorno fa, la showgirl italiana ha pubblicato un reel su Instagram in cui si chiedeva angosciata e pensosa: “Se un uomo si indentifica in una donna ha il diritto di combattere alle Olimpiadi contro una donna allora un bambino che si identifica in un adulto ha il diritto di guidare la macchina e acquistare bevande alcoliche?”
Per poi avvertire, sempre più inquieta: “In che direzione stiamo andando? Te lo sei chiesto?”
Il riferimento, ovviamente, era alla polemica per eccellenza delle Olimpiadi 2024: quella sul genere della pugile algerina Imane Khelif, deflagrata prima e dopo il match contro l’italiana Angela Carini.
Per giorni e giorni, intorno a quell’incontro – durato appena 46 secondi a causa del ritiro di Carini – si è scatenato un panico morale e politico di dimensioni globali.
Matteo Salvini, giusto per citare un politico nostrano, ha definito Khelif una “pugile trans” che compete soltanto grazie “alle follie dell’ideologia ‘woke’”. La scrittrice JK Rowling, da tempo su posizioni smaccatamente transfobiche, ha descritto l’atleta algerina come un “maschio” che sa di “essere protetto da un sistema sportivo misogino” e che “gode della sofferenza di una donna” (cioè Carini).
E ancora: su X, Elon Musk ha commentato positivamente il post della nuotatrice Riley Gaines che afferma: “Gli uomini non appartengo agli sport per le donne”. Anche la pugile ungherese Anna Luca Hamori ha pubblicato sul suo profilo Instagram delle immagini misogine e altamente offensive nei confronti di Khelif (che poi l’ha battuta ai quarti di finale).
Non poteva mancare Donald Trump: in un comizio ad Atlanta, il candidato repubblicano ha dichiarato che “una campionessa italiana si è scontrata sul ring con una persona che ha fatto la transizione, un bravo pugile uomo. L’ha colpita due volte così forte che non sapeva cosa stesse succedendo". L’ex presidente ha poi rincarato la dose sul suo Truth Social, promettendo che “TERRÒ GLI UOMINI FUORI DAGLI SPORT FEMMINILI!”
Ovviamente, i dati fattuali dicono tutt’altro.
Khelif si identifica come donna, ha un passaporto in cui è classificata come donna e da anni partecipa a competizioni sportive femminili (in cui è stata battuta più di una volta).
Tra l’altro, la transizione di genere è illegale in Algeria: se fosse davvero una persona transgender rischierebbe grosso.
Non è nemmeno accertato se l’atleta sia intersex, e cioè rientri in quella piccola percentuale di persone che hanno variazioni innate che riguardano cromosomi sessuali, gli ormoni sessuali, i genitali esterni o le componenti interne dell’apparato riproduttivo.
Il primo round della campagna d’odio
Nonostante ciò, i media e i social sono stati sommersi da una narrazione misogina, omolesbobitransfobica e razzista secondo la quale Khelif sarebbe un uomo che si finge donna per picchiare legalmente delle vere donne sul ring.
Questa narrazione ha un innesco ben preciso: la decisione dell’anno scorso dell’IBA (International Boxing Association) di squalificare la pugile algerina – e la collega taiwanese Lin Yu-ting – dai mondiali di boxe femminili.
E qui è doveroso aprire una parentesi.
L’IBA potrebbe sembrare una federazione sportiva seria, ma non lo è affatto. Al contrario: è stata travolta da scandali amministrativi, sportivi e finanziari di vario tipo, al punto tale che il CIO l’ha sospesa nel 2019 e deciso di non riconoscerla più nel 2023.
Non a caso, da Tokyo 2020 la boxe alle Olimpiadi è gestita direttamente dal CIO.
Un altro grande problema dell’IBA è il suo presidente Umar Kremlev, un imprenditore russo vicino a Vladimir Putin e appoggiato da Gazprom.
Non si tratta dunque di una persona politicamente neutra sulle questioni di genere; ma di qualcuno che, esattamente come Putin, coltiva l’ossessione verso “l’ideologia gender” – un pericolo mortale e satanico che può annidarsi ovunque.
È per questi motivi che la decisione di escludere Khelif e Yu-ting è stata sin da subito poco chiara e molto contestata.
All’epoca, diverse testate avevano citato “ragioni mediche” e “alti livelli di testosterone” che non avrebbero fatto rispettare alle due atlete “i criteri di idoneità ai campionati del mondo”.
In un’intervista alla Tass, Kremlev aveva tirato in ballo dei “risultati dei test del DNA” dai quale sarebbe emerso che “un certo numero di atleti […] ha cercato di ingannare i loro colleghi e di spacciarsi per donne”, quando in realtà non lo sono perché “hanno cromosomi XY” (cioè maschili).
Come ha ricostruito Matteo Pascoletti su Valigia Blu, la notizia era stata ripresa dalla galassia gender critical anglosassone – ossia dai femminismi trans-escludenti – e aveva messo in moto le prime “transvestigazioni”.
Su Khelif, scrive Pascoletti, si era così rovesciata
una direttrice di stereotipi che combina razzismo e sessismo, una formula che detona più facilmente attraverso la transfobia. La logica sottesa è: una pugile può essere forte, ma una pugile magrebina con quel fisico lì, e che per giunta ha alti livelli di testosterone non può essere così forte.
La squalifica del 2023 delle due atlete è stata ritirata fuori prima del match con Carini dal sito anti-trans Reduxx, e da lì è esplosa nei termini che ho descritto prima.
Anche il CIO è finito sotto accusa, sia per aver permesso la partecipazione delle due pugili che per aver definito “arbitraria e improvvisata” la squalifica dell’IBA.
Populismo patriarcale e transvestigazioni
Quest’ultima, dal canto suo, ha continuato a gettare benzina sul fuoco delle polemiche.
A detta del presidente del CONI Giovanni Malagò, prima del match avrebbe fatto “grosse pressioni” su Carini; e dopo l’incontro ha pubblicamente offerto un premio in denaro (rifiutato) a lei e alla Federboxe.
Il 5 agosto l’IBA ha indetto una conferenza stampa per ribadire la validità dei loro test: peccato però che nessuno li abbia mostrati ai giornalisti e alle giornaliste presenti, né tanto meno spiegato la metodologia.
Nel marasma generale di quella conferenza, Kremlev si è limitato a spiegare che “non siamo andati a controllare cos’abbiano in mezzo alle gambe”. E già che c’era ha fatto una lunga tirata contro le Olimpiadi di Parigi e il CIO, ritraendole come un covo di “iene” e “sodomiti”.
Ricapitolando: l’IBA, una federazione screditata e gestita in modo poco trasparente (per usare un eufemismo) da un imprenditore vicino a Putin, ha squalificato due pugili sulla base di fantomatici test che nessuno ha mai visto; la squalifica è stata poi rilanciata dalla galassia gender critical durante le Olimpiadi; e a completare l’opera è arrivata la destra radicale, che ha sollevato un’ondata mondiale di transmisoginia.
Abbiamo visto all’opera, insomma, quello che le professoresse Rebecca Sanders e Laura Dudley Jenkins hanno chiamato “populismo patriarcale transnazionale”.
Come hanno scritto in un paper del 2023, si tratta di una
variante del populismo di destra virulenta e sempre più dominante, che utilizza stereotipi sessisti e regressivi a fini di mobilitazione e per negare l’uguaglianza delle donne e delle persone LGBTQ, oltre ad attaccare i diritti sessuali e riproduttivi.
La sua natura transnazionale, per l’appunto, allarga a dismisura il raggio d’azione della fintoversia – cioè la controversia immaginaria – di questi giorni.
Oltre a essere devastante a livello psicologico e umano per le atlete prese di mira, le polemiche vanno infatti a colpire comunità già marginalizzate e inquinano ancora di più un dibattito già avvelenato da pseudoscienza e teorie del complotto di vario tipo – su tutte quella dell’“inversione di genere”.
Con il pretesto di “proteggere le donne” (quelle vere, s’intende) si è cercato di fissare rigidi paletti di genere ed esercitare una forma di controllo sul corpo delle donne, che deve essere conforme a una certa idea di femminilità.
E siccome Imane Khelif e Lin Yu-ting – così come Caster Semenya prima di loro – non la rispettano, allora devono per forza di cose essere uomini o persone transgender.
Ecco: per i “transvestigatori” – che ormai non sono più una frangia marginale della destra, ma una componente sempre più centrale – non esiste un’altra realtà accettabile; e poco importa, in fondo, che la loro realtà sia totalmente inventata.
Articoli e cose notevoli che ho visto in giro
Una disamina sul “vantaggio genetico” in relazione a Imane Khelif (e non solo), e sulla storia dei “controlli del sesso” nelle competizioni femminili (Marialaura Scatena, Valigia Blu)
Un’analisi molto dettagliata su come la questione dell’idoneità a competere negli sport femminili si sia trasformata in una battaglia ideologica (Silvia Camporesi, Culture Wars)
È da poco uscito il saggio L’internazionale moralista, che spiega come si è formata un’agenda politica comune tra Elon Musk, il regime di Putin e la destra conservatrice americana (Valerio Renzi, S’è destra)
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Forse si poteva avere il coraggio di dire che le capofila di questa campagna denigratoria sono le Femministe Radicali, ormai un vero e proprio gruppo d'odio suprematista
Ma che strano... tutti i complotti di cui scrivi sono "smascheramenti" costruiti sul versante politico anti-destra... viene da ridere!