Le altissime Torri
Dopo vent’anni, le teorie sugli attentati dell’11 settembre hanno ancora un’enorme influenza sul complottismo moderno.
Benvenute e benvenuti alla puntata #30 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie delle complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Se si parla di complotti, l’11 settembre è la data simbolica per eccellenza. Termini come inside job sono rimasti nel lessico comune, e chiunque – prima o poi – ha incontrato nella sua vita una qualche teoria sugli attentati.
Ma qual è la loro eredità, a vent’anni di distanza? E perché girano ancora oggi? Proviamo a vederlo insieme.
Attentatori solitari
Il rapporto tra il complottismo e la cultura pop è davvero strettissimo, e non ha fatto che intensificarsi negli ultimi decenni.
Secondo il professore Michael Barkun la svolta è avvenuta a partire dagli anni Novanta, quando la “letteratura complottista è percolata nel resto della società”, finendo per venire incorporata e quindi “legittimata” da libri, film e serie di successo.
Uno degli esempi più lampanti di questo processo è senza dubbio X-Files, a cui vanno aggiunti pure i suoi spinoff. Uno di questi, non troppo conosciuto sia dentro che fuori gli Stati Uniti, si chiama The Lone Gunmen (“gli attentatori solitari”): i protagonisti sono tre complottisti – John Fitzgerald Byers, Melvin Frohike e Richard Langly – che nella serie pubblicano una newsletter dal titolo omonimo, e a cui Mulder di tanto in tanto si rivolge per avere informazioni su determinate teorie cospirative.
Lo spinoff è durato appena 13 puntate, finendo per essere cancellato a causa di ascolti non proprio esaltanti. La prima puntata è quella più ricordata, ma per motivi che esulano dalla sua qualità “artistica”.
In “Pilot” – questo il titolo della puntata – un hacker vuole prendere il controllo di un Boeing 727 per schiantarlo contro il World Trade Center a New York. I tre riescono a fermarlo poco dopo il decollo, evitando la catastrofe per il rotto della cuffia.
Successivamente si scopre una verità ben più inquietante: il terrorista non stava agendo per conto proprio; seguiva gli ordini di un gruppo di cospiratori infiltrati nel governo Usa, che voleva dare la colpa a qualche “dittatore straniero” che “supplica di essere bombardato” – fornendo così il pretesto per una serie di conflitti volti per perseguire determinati obiettivi geopolitici e finanziari dopo la fine della Guerra Fredda. L’intera operazione, dunque, era quella che in gergo si chiama una false flag.
Ricorda qualcosa, vero?
La circostanza più bizzarra è che l’episodio è andato in onda il 4 marzo del 2001, sei mesi prima del vero attentato alle Torri Gemelle.
Il produttore esecutivo Frank Spotnitz, in un’intervista con il sito Mysterious Universe, ricorda che l’11 settembre del 2001 ha “subito pensato a The Lone Gunmen” guardando le immagini dei grattacieli in fiamme. Ma, aggiunge, “nelle settimane e nei mesi seguenti praticamente nessuno ha notato la coincidenza”.
Per Spotnitz, l’aspetto più disturbante della connessione tra finzione e realtà è che “se uno sceneggiatore può immaginarsi quello scenario, a rigor di logica avrebbero dovuto farlo anche le persone al potere e il governo”.
In effetti, aveva notato il filosofo Jean Baudrillard in un lungo articolo che fece piuttosto scalpore, “il mondo intero senza eccezione alcuna ha sognato questo evento”; e il fatto che “nessuno ha potuto fare a meno di sognare la distruzione di un’egemonia così potente” era semplicemente “inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente”.
Lo stesso attentato alle Torri, anticipato da un attentato dinamitardo nel 1993, era stato prefigurato in diverse opere letterarie. Molte sono di Don DeLillo, in particolare i romanzi Mao II, Giocatori e Underworld - dove in copertina campeggia proprio il World Trade Center, e un personaggio immagina una folla che fugge dal Wtc.
Insomma: l’11 settembre, in una forma o nell’altra, era già presente nel subconscio collettivo. Come ha scritto DeLillo in un’analisi pubblicata qualche mese dopo l’attacco,
L’evento ha dominato i media. Era chiaro e totalizzante e qualcuno ha detto che sembrava irreale. Quando diciamo che una cosa è irreale, intendiamo dire che è troppo reale – un fenomeno così inspiegabile, eppure così legato alla potenza dell’obiettività dei fatti da non poter essere piegato alle nostre percezioni.
Eppure, sin dai primi momenti è successo esattamente questo: l’evento è stato piegato dalle nostre percezioni, e il tentativo di mettere ordine nel caos – nonché di gestire la paura e l’incertezza – è sfociata in una serie infinita di teorie del complotto.
Cercatori di verità
Le più note le conosce più o meno chiunque.
L’11 settembre è stato un inside job dell’amministrazione Bush; le Torri non sono state abbattute dagli aerei (convinzione sintetizzata dalla frase “jet fuel can't melt steel beams”, traducibile come “il carburante di un areo non può fondere le travi d'acciaio”), ma da una demolizione controllata; non è morto nessun ebreo nell’attentato, perché sono stati avvertiti prima (cosa ovviamente non vera); il Pentagono è stato colpito da un missile, non da un aereo; qualcuno sapeva in anticipo dell’attentato poiché ha fatto insider trading in borsa; e così via.
È altamente probabile che ciascuno di noi ci abbia creduto in un dato momento – magari nell’immediatezza dell’attentato, o qualche anno dopo – oppure che ci creda ancora adesso. In base a un sondaggio del Survey Center on American Life condotto nel settembre del 2020, un americano su sei pensa che il governo americano abbia deliberatamente “lasciato accadere” gli attacchi, o li abbia addirittura pianificati ed eseguiti.
È interessante notare – sempre in base alla rilevazione appena citata – che le teorie sull’11 settembre sono pressoché bipartisan, e anzi sono lievemente più popolari presso i democratici (il 19 percento di chi ci crede) rispetto ai repubblicani (14 percento).
La cosa però non deve stupire più di tanto: per Mark Fenster, autore di Conspiracy Theories: Secrecy and Power in American Culture, nella fase iniziale le teorie erano rivolte soprattutto contro Bush e l’amministrazione repubblicana, e per forza di cose si diffondevano anche in ambienti democratici e liberal.
Ma il cosiddetto movimento dei truther (ossia i “cercatori della verità” sull’11 settembre) era per l’appunto molto più ampio e trasversale di così.
Negli anni successivi all’attentato, sottolinea sempre Fenster, gruppi e sottogruppi di truther sono apparsi online e offline negli Usa (e altrove), mentre i siti e i forum dedicati all’11 settembre si sono moltiplicati come il pane e i pesci. In tutto ciò si è pure formata una di classe di “esperti” (tra cui Alex Jones, il fondatore di InfoWars), attorno ai quali è fiorita una vera e propria industria commerciale.
Il picco di questo movimento si è raggiunto tra il 2004 e il 2005, in concomitanza con l’uscita del rapporto ufficiale della commissione sull’11 settembre e i primi debunking sistematici di ogni teoria (specialmente quelli realizzati dalla rivista Popular Mechanics).
Un ruolo fondamentale nella crescita del movimento l’ha avuto il documentario Loose Change, uscito originariamente nel 2005, di cui ho già parlato in una delle prime puntate di questa newsletter.
Il regista amatoriale Dylan Avery – che all’epoca aveva solo 21 anni – è riuscito per la prima volta a raggruppare tutte le teorie che circolavano in una narrazione (più o meno) coerente e accattivante, utilizzando uno stile particolare che ha inaugurato il florido filone del “documentario complottista”.
Di fronte alla sua diffusione vorticosa sui canali p2p e su Google Video (il progenitore di YouTube), nel 2006 Vanity Fair l’aveva definito “il primo blockbuster di Internet”. Nello stesso anno, un sondaggio di Scripps-Howard aveva rilevato che ben il 36 percento degli americani fosse convinta del coinvolgimento governativo negli attentati.
Parlando con il giornalista di Esquire John McDermott, autore di un’approfondita retrospettiva su Loose Change, il podcaster Moe Rock ha detto che il “documentario ha avuto un grandissimo impatto sulla politica e sui media, contribuendo a spedire molti dei miei coetanei in fondo alla tana del Bianconiglio. [Loose Change] ha innescato l’esplosione del cospirazionismo online”.
Dopo l’elezione di Obama, tuttavia, le teorie sull’11 settembre hanno iniziato a fare meno presa – se non altro a livello numerico – e il movimento dei truther ha iniziato ad affievolirsi. Ma non è scomparso del tutto: è semplicemente mutato in altre forme.
Alcuni truther di sinistra sono confluiti in Occupy, mentre quelli di destra sono finiti prima nel Tea Party (il movimento sorto nel 2009 che ha spostato ancora più a destra l’asse del partito repubblicano) e poi nel movimento dei birther – ossia i proponenti della teoria secondo cui Obama non è nato negli Stati Uniti e quindi non poteva fare il presidente, di cui Donald Trump è stato uno dei promotori più noti.
In un recente articolo pubblicato su City Journal, l’ex editor di Popular Mechanics James B. Meigs ha scritto che i truther sono effettivamente stati un “campanello d’allarme” per l’intera società americana, dal momento che hanno incarnato “una certa mentalità e un certo pensiero” che sono deflagrati dall’11 settembre a oggi.
Ad avviso di McDermott, l’eredità più insidiosa del movimento è però un’altra: essendo totalmente focalizzato sui “nemici interni”, il complottismo sull’11 settembre ha contribuito a far perdere di vista questioni di portata generale che ancora adesso sono senza risposta - come ad esempio il presunto coinvolgimento degli apparati governativi dell’Arabia Saudita, una pista seguita per anni dall’Fbi.
Lo specchio distorcente della storia
A ogni modo, il ventesimo anniversario è lo spunto per farsi un’altra domanda: perché le teorie sull’11 settembre, nonostante siano state smentite praticamente subito, vanno ancora forte a vent’anni di distanza? E come mai hanno avuto un impatto così dirompente sul complottismo contemporaneo?
Anzitutto, come fanno tutte le teorie focalizzate su un avvenimento specifico, quelle sull’11 settembre si basano sul bias di proporzionalità: a un evento di grande importanza deve necessariamente corrispondere una causa altrettanto grande.
A prima vista, non è pertanto pensabile che un gruppo terroristico come Al-Qaeda - di cui l’opinione pubblica ignorava quasi completamente l’esistenza - riesca ad attaccare in quel modo l’unica superpotenza globale; dev’esserci qualcosa sotto, cioè una responsabilità diretta del governo.
Peccato che, come illustra un libro del calibro de Le altissime torri, fosse tutto perfettamente plausibile: l’11 settembre è infatti il risultato di scelte geopolitiche avventate e scriteriate, della lunga evoluzione del terrorismo jihadista, e dei tragici errori commessi dalle strutture di sicurezza americane – molti dei quali dettati da disfunzioni burocratiche e comunicative.
A tal proposito, l’ex capo della commissione sull’11 settembre Thomas Kean l’ha detto chiaro e tondo al Guardian: “se l’Fbi, la Cia e altre 14 agenzie di intelligence si fossero parlate, l’attentato avrebbe potuto essere sventato”.
Un’altra caratteristica fondamentale delle teorie sull’11 settembre è che ingigantiscono oltre ogni misura l’intenzionalità e la capacità di agire (agency) dei cospiratori: tutto si svolge sempre secondo i loro piani; non ci sono mai intoppi; nessuno si lascia sfuggire il minimo segreto. In sostanza, la storia è completamente pianificabile e manovrabile dagli esseri umani.
Ma nella realtà non succede mai così, perché a un certo punto qualcosa va storto. Come scriveva Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici, “i cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione” poiché
la vita non è solo una prova di forza fra gruppi in competizione, ma è anche azione entro una più o meno elastica o fragile struttura di istituzioni e tradizioni, azione che provoca – a parte qualsiasi contro-azione consapevole – molte reazioni impreviste, e alcune di esse forse anche imprevedibili, in seno a questa struttura.
Proprio nelle scorse settimane abbiamo visto queste “reazioni impreviste” in Afghanistan, con il ritorno in grande stile dei talebani e l’umiliante ritiro delle truppe statunitensi. Per non parlare poi di quello che è successo in Iraq (un altro disastro) o dell’intera “guerra al terrore”.
Per concludere, le teorie sull’11 settembre sono affascinanti e funzionano anche vent’anni dopo perché costituiscono – per usare un’espressione del filosofo Paolo Virno – il “doppio agghiacciante” di un evento già di per sé agghiacciante, che ha causato sconvolgimenti epocali.
E l’aspetto davvero significativo è che questo “doppio” da un lato ha pervertito la storia, mentre dall’altro l’ha affiancata come un’ombra – contribuendo a plasmarne la sua memoria per le generazioni future.
Articoli e cose notevoli che ho visto questa settimana:
La complicata e ambigua relazione tra le grandi piattaforme social e le teorie sull’11 settembre (David Brennan, Newsweek)
Interviste ad alcuni truther che spiegano come sono entrati nel vortice delle cospirazioni sulle Torri Gemelle – e come ne sono usciti (Ruchira Sharma, iNews)
Un’eccellente retrospettiva su Loose Change, e il suo profondo impatto sul moderno ecosistema disinformativo e complottista (Kevin Roose, New York Times)
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ma scusa tipo howard zinn nel suo libro parla di molti di questi di false flog policy che hanno innescato varie guerre dalla messicana alla 2a