Uomo, bianco e straniero
La candidatura di Kamala Harris ha scatenato teorie del complotto di ogni tipo - dal genere fino al colore della pelle, passando per la cittadinanza.
Benvenute e benvenuti alla puntata #78 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie del complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Negli Stati Uniti continua a succedere di tutto: dopo l’attentato a Donald Trump c’è stato il ritiro di Joe Biden, a cui è succeduta la candidatura di Kamala Harris (non ancora ufficializzata, ma praticamente certa). La destra trumpiana non ha perso tempo e come al solito ha “sommerso la stanza di merda”, per citare Steve Bannon. Vediamo dunque quali sono le teorie più gettonate su Harris.
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“Kamal”, il democratico
Dopo il catastrofico dibattito di fine giugno con Donald Trump, era chiaro che Joe Biden non potesse andare avanti con la sua candidatura. E così, dopo circa un mese di pressioni e tentennamenti, il 21 luglio del 2024 il presidente ha annunciato il ritiro e il contestuale appoggio alla sua vice Kamala Harris.
Da allora, la campagna elettorale statunitense ha oggettivamente cambiato tono. La politica democratica ha subito raccolto centinaia di milioni di dollari di donazioni, è diventata un meme sui social, e ha galvanizzato un partito pericolosamente impantanato sulla questione dell’età di Biden.
Come ha scritto il New York Times, “ora i democratici scorgono l’opportunità di riscattarsi [dalle] battaglie interne e da una corsa che sembrava indirizzata verso risultati catastrofici, dalla Casa Bianca fino a quelle nei singoli stati”.
Dal canto suo il Partito Repubblicano si è trovato costretto a rivedere in toto la propria strategia comunicativa, che era completamente incentrata sullo scontro diretto con Biden – il candidato debole, fragile, vecchio e “addormentato”, rispetto a un Trump che addirittura schiva le pallottole con l’aiuto di Dio.
Per ora, la propaganda repubblicana sta riciclando accuse già mosse nei confronti di Harris durante gli ultimi quattro anni: quelle cioè di essere un’incompetente, di avere posizioni estremiste (mentre in realtà è piuttosto centrista) e di avere un atteggiamento frivolo o fuori luogo.
A tal proposito, Donald Trump in un recente comizio l’ha definita “Laughing Kamala” (cioè “Kamala sghignazzante”), dicendo che ha una risata “da pazza”. In un’altra occasione l’ha bollata come una “donna socialista”.
Poi c’è la propaganda ufficiosa promossa dai circuiti estremisti, complottisti e trumpiani attivi soprattutto sui social network, dove sono tornate in auge notizie false e teorie del complotto di ogni tipo.
Giusto per fare qualche esempio, su X l’influencer trumpiana Laura Loomer ha scritto che Harris “non è una nera” ma una “indiano-americana che finge di essere nera per rientrare a forza nella quota DEI democratica” (DEI è l’acronimo di “diversità, equità e inclusione”).
Ovviamente, non è così: la vicepresidente ha spiegato più volte – anche nella sua autobiografia – che si identifica come donna nera e sud-asiatica, in ossequio alle origini giamaicane del padre e indiane della madre.
Altri utenti su X hanno affermato che Kamala Harris sarebbe in realtà un uomo libico di nome “Kamal Aroush”. Questa tesi misogina e omolesbobitransfobica gira da anni, e fa parte del più ampio filone complottista dell’“inversione di genere delle élite” che ha colpito – tra le varie – Michelle Obama, Begoña Gomez (moglie del premier spagnolo Pedro Sánchez) e Brigitte Macron.
La teoria che sta riscontrando più successo, almeno a livello di interazioni e visualizzazioni, è però un’altra: Harris non può candidarsi alla presidenza perché non sarebbe una vera cittadina statunitense, visto che entrambi i suoi genitori sono stranieri.
Anche in questo caso non siamo di fronte a una novità: se ne era parlato già nella sua campagna presidenziale del 2020.
Da Chester Arthur a Barack Obama
Più in generale, la suddetta teoria rientra appieno nel “birtherism” (da birth, nascita), una corrente complottista che punta a negare la legittimità di alcuni candidati presidenziali basandosi su teorie pseudo-costituzionali.
A tal proposito, l’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti richiede che il presidente abbia almeno 35 anni di età, sia residente nel paese da almeno 14 anni e sia nato negli Stati Uniti (l’espressione precisa è “natural born Citizen”). Come prevede il 14esimo emendamento, approvato dopo la fine della guerra civile per garantire eguali diritti alla popolazione nera, viene legalmente considerato un cittadino chiunque “nasce o è naturalizzato negli Stati Uniti”.
I criteri costituzionali, insomma, sono piuttosto chiari.
Nonostante ciò, la storia statunitense è costellata di precedenti di “birtherism”. Nel 1881, ad esempio, Chester A. Arthur – che poi diventerà il 21esimo presidente degli Stati Uniti – era stato accusato di non essere candidabile perché sarebbe nato in Canada e non nello stato del Vermont.
Durante la campagna elettorale del 1916, il politico nativista Breckinridge Long – consulente del presidente democratico Woodrow Wilson – aveva detto che il candidato repubblicano Charles Evans Hughes non era candidabile perché, pur essendo nato negli Stati Uniti, suo padre non era un cittadino statunitense.
E ancora: nel 1968 le speculazioni sulla candidabilità avevano preso di mira il candidato alle primarie repubblicane George Romney (padre del senatore repubblicano Mitt Romney), poiché era nato in Messico da genitori statunitensi.
Il caso per eccellenza di “birtherism” è senz’ombra di dubbio quello di Barack Obama.
A partire dalle primarie democratiche del 2008, su Internet e negli ambienti ultraconservatori erano circolate speculazioni sul fatto che l’ex presidente non fosse nato alle Hawaii ma in Kenya, e che la sua candidatura – e poi presidenza – fosse illegittima.
La teoria del complotto, come ha puntualizzato il giornalista Adam Serwer su The Atlantic, si accompagnava a una seconda tesi infondata: ossia che Obama fosse segretamente un musulmano e intendesse trasformare gli Stati Uniti in una nazione islamica.
Nulla di tutto ciò era vero; ma la teoria si era comunque diffusa a macchia d’olio su Internet, esplodendo poi quando Donald Trump – che all’epoca era ancora lontano dalla candidatura – l’aveva rilanciata su Fox News nella primavera del 2011, diventando di fatto una specie di “portavoce” del movimento dei birther.
Birtherism 2.0
Sia chiaro: non stiamo parlando di un fenomeno politico marginale, né tanto meno confinato in angoli remoti della rete. All’apice della diffusione della teoria falsa su Obama, il circa il 30 per cento dell’elettorato repubblicano non credeva che il presidente fosse nato negli Stati Uniti.
Per cercare di fermare le speculazioni una volta per tutte, la Casa Bianca aveva diffuso il certificato di nascita integrale – quello ridotto era naturalmente insufficiente per i complottisti – che dimostrava in modo inoppugnabile che Obama era nato nelle Hawaii.
Tuttavia, il sospetto su Obama non si è mai dissipato del tutto e il “birtherism” è diventato parte integrante del trumpismo.
Lo stesso Trump, durante le primarie repubblicane del 2016, aveva accusato il rivale Ted Cruz di non essere candidabile perché è nato in Canada da madre statunitense.
Poi era arrivato il turno di Kamala Harris.
Nell’agosto del 2020, non appena Harris era stata nominata vice da Biden, l’avvocato e professore repubblicano John Eastman – considerato uno degli architetti dell’assedio al Congresso – aveva pubblicato un controverso editoriale su Newsweek in cui metteva in dubbio la candidabilità della politica.
Per Eastman, la Costituzione non prevederebbe uno ius soli illimitato. E siccome i genitori di Harris non erano cittadini statunitensi al momento della nascita della figlia, quest’ultima sarebbe stata sottoposta all’autorità giuridica di due paesi stranieri – la Giamaica e l’India – e quindi non avrebbe potuto acquisire automaticamente la cittadinanza statunitense.
Sin dal giorno della pubblicazione, l’articolo di Eastman è stato usato dagli ambienti più estremisti per attaccare Harris; e non a caso, è stato immediatamente citato da Donald Trump.
In una conferenza stampa, l’allora presidente aveva detto ai cronisti di “aver sentito che [Harris] non ha tutti i requisiti [per candidarsi]. Non so se è così, ma mi auguro che i democratici abbiano fatto le loro verifiche prima di sceglierla come vicepresidente”.
Come hanno spiegato diversi giuristi, la teoria di Eastman giuridicamente e costituzionalmente non ha alcun senso.
Dal punto di vista politico, però, ce l’ha eccome: serve a screditare Harris, minare le basi legali dello ius soli (uno degli obiettivi di Trump) e, soprattutto, fornire una giustificazione intellettuale a posizioni apertamente razziste.
Se possibile, il sottotesto di questa forma di “birtherism 2.0” è anche più subdolo della versione obamiana, che si fondava su una circostanza falsa e inventata. Qui invece si usano argomentazioni apparentemente più raffinate per sostenere che una donna nera e sud-asiatica, nata da genitori stranieri, non può essere una cittadina statunitense al 100 per cento.
Harris sarebbe pertanto una cittadina di serie B, che in quanto tale non può assolutamente aspirare a ricoprire un incarico politico, nemmeno di secondo o terzo piano – figuriamoci la presidenza degli Stati Uniti.
Articoli e cose notevoli che ho visto in giro
Per Slavoj Žižek, il fallito attentato di Butler ha elevato Trump al rango di “feticcio nel senso psiconalitico del termine” (Žižek’s Goads and Prods)
Negli ultimi mesi, Trump cita Hannibal Lecter praticamente a ogni comizio – parlandone come se fosse un personaggio realmente esistente (Mike Rothschild)
È da poco uscito un saggio, scritto dalla giornalista Jesselyn Cook, che segue cinque famiglie statunitensi distrutte da QAnon (Roxanna Asgarian, New York Times)
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