L’inchino di Zuck
Tra donazioni, nomine e capovolte sul fact-checking, Mark Zuckerberg sta cercando di compiacere Donald Trump in tutti i modi.
Benvenute e benvenuti alla puntata #95 di COMPLOTTI!, la newsletter che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Anzitutto, una bellissima notizia: Cecilia Sala è stata liberata dal carcere di Evin ed è tornata in Italia. Consiglio di ascoltare il racconto dell’arresto e della detenzione nel suo podcast Stories, che è molto toccante ed emozionante.
Tornando a noi, oggi mi occuperò dell’incredibile capovolta di Mark Zuckerberg su fact-checking e moderazione dei contenuti, che avrà delle (pessime) implicazioni sia sulla piattaforma che in generale sull’ecosistema informativo.
Prima di partire, ricordo che il mio ultimo saggio Le prime gocce della tempesta è acquistabile nelle librerie (quelle indipendenti sono sempre da preferire) e nei negozi online. Sul mio profilo Instagram trovate una rassegna stampa aggiornata e le date delle presentazioni.
Nel mio ultimo video per YouTube mi sono invece occupato dell’annosa questione del “saluto fascista”, smontando il mito del legame con l’antica Roma e cercando di capire perché è così difficile da punire.
La fine del fact-checking su Facebook
Con un orologio da 900mila dollari al polso, una t-shirt extralarge da gym bro e un ragguardevole peso sul collo (ossia una collana da trapper), il 7 gennaio del 2025 Mark Zuckerberg ha annunciato la fine del programma di collaborazione con i fact-checker per il contrasto alla disinformazione su Facebook, Instagram e Threads.
Il Third Party Fact-Checking Program (3PFC) al momento sarà interrotto solo negli Stati Uniti, ma la strada sembra essere tracciata anche per il resto del mondo – sebbene in Europa e nel Regno Unito le cose potrebbe essere più complicate a livello giuridico e normativo.
La decisione è stata ulteriormente confermata anche dal nuovo direttore degli affari globali di Meta, Joel Kaplan, un repubblicano di ferro che è stato l’ex capo di gabinetto del presidente George Bush.
In un comunicato, Kaplan ha scritto che il programma di verifica dei contenuti gestito da fact-checker indipendenti era “nato per informare” ma col tempo “è diventato troppo spesso uno strumento per censurare”.
Lo stesso Zuckerberg ha detto – senza citare prove o evidenze – che “i fact-checker sono stati semplicemente troppo schierati politicamente e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata, specialmente negli Stati Uniti”.
Per questo, ha annunciato che “torneremo alle nostre radici per concentrarci sulla riduzione degli errori, semplificare le nostre policy e ripristinare la libertà di espressione sulle nostre piattaforme”.
E in che modo sarà fatto?
Sia Kaplan che Zuckerberg hanno detto che la verifica dei contenuti sarà affidata agli utenti stessi attraverso le cosiddette “Community Notes”, un modello attivo su X che non è minimamente in grado di arginare l’immensa mole di contenuti falsi e fuorvianti.
Sostanzialmente, il decantato “ritorno alle origini” trasformerà Facebook – che già adesso è una piattaforma ampiamente “merdificata” e piena di sbobba generata dall’intelligenza artificiale – in un altro social network pieno di discorsi d’odio e disinformazione a briglie sciolte, in cui sarà permesso dire che “l’omossessualità è una malattia mentale”, insultare i migranti con espressioni razziste, rilanciare contenuti e stereotipi antisemiti, nonché inondare i feed di commenti sessisti e misogini.
Non è una mia esagerazione o previsione pessimistica: è letteralmente quello che sta già succedendo, come ha riportato Sam Biddle su The Intercept.
Ed è una “novità” che, secondo quanto ha detto il dirigente di Meta Alex Schultz in una mail interna citata da Platformer, porterà a uno sviluppo positivo per la comunità LGBTQIA+: leggendo gli insulti e le ingiurie omolesbobitransfobiche, la gente non potrà che diventare più tollerante nei loro confronti.
Le capovolte di Meta per ingraziarsi Trump
Chiaramente, la decisione di terminare il 3PFC non è legata all’efficacia del programma, né all’orientamento politico dei partner (mai contestato finora), né tanto meno al fact-checking in sé.
Anche perché, solo fino a poco tempo fa, Zuckerberg e Meta ne tessevano le lodi in occasioni pubbliche e rapporti ufficiali.
In un documento inviato all’Unione Europea in ottemperanza al Regolamento sui servizi digitali, ad esempio, l’azienda ha esaltato la propria collaborazione con i fact-checker indipendenti descrivendola come un ottimo rimedio “alla diffusione su larga scala di disinformazione e misinformazione”
E non è nemmeno una scelta ponderata sulla base di dati ed evidenze, che pure l’azienda avrebbe in abbondanza. No, non è nulla di tutto ciò: piuttosto, è dettata da logiche puramente politiche legate al contesto interno statunitense.
O per metterla giù ancora più esplicitamente: è un plateale inchino a Donald Trump e ai repubblicani, che hanno sempre definito “censura” la moderazione dei contenuti.
La capovolta sul fact-checking, infatti, è solo l’ultima di una lunga serie di mosse per ingraziarsi il presidente eletto.
Oltre a nominare Kaplan, Zuckerberg è volato a Mar-a-Lago per incontrare Trump; ha donato un milione di dollari al fondo per l'insediamento del presidente; ha fatto entrare Dana White – presidente della UFC, il campionato statunitense di arti marziali miste, e grande amico di Trump – nel consiglio d’amministrazione di Meta; ha ordinato la cessazione dei programmi di diversità e inclusione dell’azienda; e ha addirittura fatto rimuovere i temi LGBTQIA+ di Messenger.
Tutto ciò è avvenuto in prossimità dell’inaugurazione di Trump, che in questi anni ha ripetutamente criticato Zuckerberg – soprattutto per averlo bannato nel 2021 dopo l’assedio al Congresso – e ha minacciato di metterlo in galera una volta che sarebbe tornato alla Casa Bianca.
Queste minacce, come ha riconosciuto Trump, hanno “probabilmente” portato il fondatore di Facebook a più miti consigli.
In generale, però, l’annuncio di Zuckerberg è il sintomo di una svolta più profonda e radicale.
A livello politico, il fondatore di Facebook è sempre stato una banderuola.
Basta ricordare che il 3PFC era nato nel 2016, come risposta alle critiche piovute sull’azienda per le fake news circolate durante la campagna presidenziale poi vinta da Trump.
Il programma era poi tornato utile a Meta per cercare di smorzare lo scandalo di Cambridge Analytica, e in generale per poter dire all’opinione pubblica che stava facendo qualcosa per arginare il complicatissimo e sfaccettato problema della disinformazione.
La svolta MAGA di Zuckerberg
Negli ultimi anni, fiutando che il clima culturale stava cambiando (sempre negli Stati Uniti, ci tengo a precisarlo), Meta ha imboccato diverse strade per intercettare lo zeitgeist.
Prima ha penalizzato i link esterni, nel tentativo – riuscito, va detto – di rimuovere de facto i contenuti giornalistici. Poi ha depotenziato la moderazione dei contenuti problematici. Poi ha limitato quelli politici su Instagram, specialmente dopo il massacro del 7 ottobre e in vista delle presidenziali.
E ora, per l’appunto, vuole dare più visibilità ai contenuti politici senza limitazioni di sorta.
Per il giornalista del New York Times Kevin Roose, che si occupa di tecnologia e cultura digitale, queste modifiche riflettono anche una netta svolta politica e personale di Zuckerberg.
La traiettoria di Zuckerberg, puntualizza il giornalista, ricalca quella di molti altri “liberal delusi”:
Un quarantenne ricco con una reputazione pubblica ormai compromessa si mette ad ascoltare Joe Rogan e inizia a sviluppare una passione per le arti marziali miste e altri passatempi ipermascolini, sviluppa un certo astio nei confronti della sinistra e dei media e alla fine si converte al conservatorismo MAGA.
In altre parole: siccome il vento tira verso Trump, Zuckerberg ha deciso di fare il cosplayer di Elon Musk e traghettare Meta in quella direzione, trincerandosi dietro una difesa posticcia e fasulla della libertà d’espressione.
In realtà, come ha sottolineato la giornalista Taylor Lorenz nella sua newsletter UserMag, agli Zuckerberg e ai Musk di turno non frega assolutamente nulla della libertà d’espressione, che hanno sempre ristretto e violato in ogni modo.
A loro interessa solo ed esclusivamente una cosa: non avere il fiato sul collo da parte delle autorità regolatorie e di controllo.
Il prossimo aprile, infatti, si aprirà un processo in cui Meta è accusata dalla Federal Trade Commission – l’agenzia federale che si occupa far rispettare le leggi antitrust – di aver strapagato Whatsapp e Instagram per schiacciare la concorrenza e mantenere una posizione di sostanziale monopolio.
Brendan Carr, il nuovo capo della Commissione federale per le comunicazioni nominato da Trump, vuole inoltre incrementare i controlli su Meta e altre aziende della Big Tech.
Insomma: Zuckerberg – insieme ad altri magnati della Silicon Valley – pensa che prostrarsi ai piedi del nuovo re sia sufficiente a comprare la sua benevolenza e mettersi al riparo dalla sua ira.
Peccato che potrebbe non bastare.
La stampa di destra ha già iniziato a dire che non bisogna fidarsi di Zuckerberg, mentre la senatrice repubblicana Marsha Blackburn ha parlato su X di “uno stratagemma per evitare di essere regolamentati”.
E sul punto “non ci faremo fregare”, ha poi concluso.
Comunque vada, una cosa è certa: il prezzo più alto di queste scelte lo pagheranno gli stessi dipendenti di Meta, gli utenti e le comunità marginalizzate in tutto il mondo, che saranno abbandonate a sé stesse in un mare d’odio, disinformazione e Gesù Cristo a forma di gamberetto.
Articoli e cose notevoli che ho visto in giro
Peter Thiel, il magnate più reazionario della Silicon Valley, ha pubblicato un editoriale a dir poco sconclusionato e molto – ma molto – complottista (Financial Times)
Elon Musk, quello che secondo Giorgia Meloni non si intromette negli affari di altri paesi, vuole letteralmente cacciare il primo ministro Keir Starmer e rovesciare il governo del Regno Unito (Anna Gross e Joe Miller, Financial Times)
Sempre a proposito di Musk, ingerenze e stramberie: l’imprenditore ha “intervistato” su X la leader di AfD Alice Weidel, e quest’ultima è arrivata a dire che Hitler era un “comunista” (David Gilbert, Wired)
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