Il paese delle mezze verità
È vero che tutte le stragi degli anni Settanta e Ottanta sono un mistero irrisolto? Ne ho parlato con la storica e scrittrice Benedetta Tobagi, a partire dal suo ultimo libro.
Benvenute e benvenuti alla puntata #74 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie del complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Sono da sempre un avido lettore di libri e testi sulle stragi politiche che hanno insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1980. È la parte della storia italiana che più di ogni altra mi affascina. Ma è anche una parte difficile da analizzare, proprio perché molte cose sono avvolte da una nebbia informativa piuttosto spessa.
Siccome questa settimana c’è stato il cinquantesimo anniversario della strage di piazza della Loggia a Brescia, ne ho approfittato per parlarne anche in questo spazio – con l’aiuto di un’ospite d’eccezione.
Prima di partire, ricordo che è uscito il mio ultimo saggio Le prime gocce della tempesta. Si può acquistare nelle librerie (quelle indipendenti sono sempre da preferire) e nei negozi online. Sul mio profilo Instagram trovate una rassegna stampa aggiornata e le date delle presentazioni, che aggiorno man mano.
Tutte le stragi sono un mistero?
Il 28 maggio del 1974 si è commemorato il cinquantesimo anniversario della strage di piazza della Loggia a Brescia – ossia la più fascista delle stragi degli anni Settanta, visto che ha colpito una manifestazione antifascista contro la violenza dell’estrema destra eversiva.
In quell’attentato sono morte 8 persone e più di 100 sono rimaste ferite. Nonostante i tantissimi depistaggi, oggi sappiamo con certezza che la strage è stata compiuta da militanti di Ordine Nuovo, che sono stati condannati dopo decine di anni e diciotto processi.
Nonostante ciò, ancora adesso su quella drammatica stagione aleggiano dietrologie e dimenticanze. Da un lato si parla di “misteri” irrisolti; dall’altro si rilanciano teorie infondate (come quella della “pista palestinese” a Bologna) o si preferisce eludere in toto la questione.
A Brescia, giusto per fare un esempio, c’era soltanto la ministra dell’università Anna Maria Bernini; il resto del governo non ha detto nulla. La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha preferito fare un siparietto contro un avversario politico piuttosto che ricordare delle vittime uccise da terroristi neofascisti.
A ogni modo, recentemente è uscito un saggio che affronta il fenomeno stragista in tutte le sue sfaccettature, evidenziando ciò che sappiamo e ricostruendo il complesso contesto storico e geopolitico in cui sono avvenuti gli attentati.
Si intitola Le stragi sono tutte un mistero (Laterza) ed è stato scritto da Benedetta Tobagi, storica e scrittrice che da anni sta portando avanti un rigorosissimo – e davvero encomiabile – lavoro di ricerca e verifica, senza mai cedere a facili semplificazioni.
Per l’occasione, la casa editrice Laterza mi ha chiesto di fare una diretta Instagram con Tobagi, che si è svolta proprio il 28 maggio: qui si può trovare la versione integrale. Qui sotto c’è invece una versione editata e condensata.
Il tuo libro inizia con una constatazione: i “misteri d'Italia" sono ormai un marchio di successo, e al tempo stesso un modo molto pigro di approcciarsi alle stragi avvenute tra il 1969 e il 1980. Come prima cosa ti chiedo: è vero che, a cinquant’anni di distanza, non sappiamo ancora quasi nulla di queste stragi?
Le stragi di quella stagione sono tutt’altro che un mistero. Non sappiamo tutto, ovviamente; però sappiamo moltissimo. Il quadro complessivo è molto chiaro, e quindi parlare di misteri è sbagliato.
Per quale motivo? La prima spiegazione molta efficace l’ha data Paolo Bolognesi, che da tanti anni è il presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna. Secondo lui non siamo di fronte a dei “misteri”; i “misteri” sono quelli della fede. Questi sono “segreti”, che è tutta un’altra cosa: ci sono delle cose che si potrebbero sapere, ma che qualcuno non vuole far sapere. E quindi, per tanti anni non si è avuta chiarezza.
C’è poi da aggiungere un altro tassello: sappiamo che la matrice di tutte le stragi dal 1969 all’80 è di estrema destra. .
Sono attentati terribili che volevano alimentare terrore nella popolazione e che non erano rivendicati (almeno fino alla strage di Brescia, del 1974, che segna una cesura in questo senso). In questo modo si voleva creare un alone di incomprensibilità funzionale al delitto. Se non sai chi ha colpito, amplifichi l’effetto di angoscia nella popolazione, perché la minaccia potrebbe arrivare da tutte le parti.
Fino al 1973 erano inoltre attentati false flag, cioè commessi sotto “falsa bandiera”, in cui si scaricava la colpa su qualche capro espiatorio. Nel 1969 c’è la prima grande strage, quella di Piazza Fontana, che è un caso da manuale: la colpa è stata infatti fatta ricadere sugli anarchici, i “sovversivi”, nel vecchio lessico fascista.
A proposito di matrice: in molti pensano che le stragi di Piazza Fontana o di Bologna siano state fatte dalle Brigate Rosse, e non da Ordine Nuovo o dai Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar). Come mai ancora adesso c’è tutta questa confusione?
Il disegno stragista nasce proprio con l’idea di alimentare la confusione e alzare un gran polverone. Quindi non c’è soltanto il depistaggio delle indagini, che pure è importantissimo; c’è pure un uso sistematico e strutturato dei media e dei mezzi di comunicazione.
I giornali compiacenti – nonché le agenzie di stampa collegate ai servizi segreti – diffondevano articoli allarmistici e veline con false piste che servivano a creare un clima di allarme nei confronti dei “pericolosi sovversivi” che portavano “instabilità” nella società. Ed è in quel clima che, a un certo punto, arrivava la bomba.
Il depistaggio riguarda invece la gestione dell’inchiesta, con la creazione delle false piste e l’occultamento dei veri indizi. Questo faceva sì che le indagini girassero a vuoto, per anni. Per questo, finiscono in nulla di fatto i processi celebrati tra gli anni Settanta e Ottanta. L’alternarsi di assoluzioni e condanne ha poi generato ancora più confusione.
Per la strage di Brescia, ad esempio, ci sono voluti ben 43 anni per arrivare alle condanne in via definitiva. È chiaro che dopo così tanto tempo c’è una parte della società che è stanca, non capisce, è disinteressata o sfiduciata.
Un ruolo cruciale nella prima fase stragista l’ha avuto Ordine Nuovo, una formazione che tuttavia non è conosciuta come le Brigate Rosse. Puoi spiegare cos’era davvero questa formazione? E perché, per l’appunto, non è così tanto nota nonostante la sua centralità?
Se non è ben chiaro cos’è stato Ordine Nuovo e che ruolo ha avuto, è innanzitutto perché così volevano i componenti di questo gruppo, in particolare chi ha agito nella struttura coperta paramilitare: era funzionale al disegno di provocazione perseguito con le stragi. Se Ordine nuovo non è familiare al grande pubblico, è perché ha fatto di tutto per rendere difficile parlarne.
Siamo di fronte a due modelli diversi: c’è chi – come le Brigate Rosse – operava in clandestinità (per evitare gli arresti) ma voleva imporsi all’attenzione mediatica come organizzazione, e dunque diffondeva volantini, simboli, dichiarazioni, proclami, video e quant’altro. E c’è invece chi voleva agire nell’ombra senza palesare la sua vera identità: era questo il caso di Ordine Nuovo, che era una creatura anfibia.
L’organizzazione è nata in modo legale alla fine degli anni Cinquanta, come scissione “a destra” del Movimento Sociale Italiano, e ha mantenuto per tutta la sua esistenza una facciata legale di centro studi. Gli ordinovisti si sentivano molto più vicini al nazismo che al fascismo. Il loro motto era “il nostro onore si chiama fedeltà”, che era il motto delle SS naziste. Il suo fondatore e leader era Pino Rauti, che aveva fatto in tempo a combattere per la Repubblica di Salò ed era un riferimento per l’ala più radicale della destra parlamentare.
Ordine Nuovo ha cominciato a interesse rapporti con i servizi segreti a partire dalla metà degli anni Sessanta in poi. Rauti in particolare è stato ingaggiato da un generale per scrivere un libello provocatorio intitolato Le mani rosse sulle forze armate, insieme al giornalista neonazista [e collaboratore del SID, il servizio segreto militare] Guido Giannettini, che verrà lungamente indagato per la strage di piazza Fontana perché legatissimo ai due terroristi neri riconosciuti storicamente responsabili dell’eccidio, ossia Franco Freda e Giovanni Ventura.
Questi legami con i servizi vanno letti nel clima di anticomunismo paranoico della Guerra fredda, in cui bisognava arginare a tutti i costi l’avanzata politica e sociale delle sinistre. Le forze di sicurezza italiane spesso si attenevano al principio aureo dell’anticomunista piuttosto che al dettato costituzionale, e intessevano rapporti di questa natura.
Oltre alla facciata legale in Ordine Nuovo c’era anche una struttura coperta, con quadri come Carlo Digilio, esperto di armi ed esplosivi (e reo confesso di aver relizzato la bomba di piazza Fontana); poi c’erano dirigenti ben noti come Carlo Maria Maggi, condannato all’ergastolo in via definitiva per la strage di Brescia, che operarono sui due livelli, palese e occulto.
Questa progettualità stragista, è bene ricordarlo, era in armonia con dottrine che erano diffuse in ambito militare non solo italiano, ma Nato: si parlava infatti di “guerra non ortodossa”, e si organizzavano convegni in cui si sosteneva che per “vaccinare” la società contro il comunismo si dovevano “inoculare” piccole dosi di violenza.
Nel tentativo di descrivere quegli anni così affollati di avvenimenti sono state coniate davvero tante espressioni: “anni di piombo”, “strategia della tensione” e “strage di Stato”. Vorrei soffermarmi su quest’ultima, che probabilmente è la più nota. Com’è nata e come si è diffusa? E soprattutto: ha un fondo di verità?
L'espressione nasce pochissimo dopo la strage di Piazza Fontana in relazione all’incriminazione di Pietro Valpreda e alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Diventa famosissima nel 1970, quando un collettivo di controinformazione – di cui fanno parte militanti, avvocati e giornalisti legati al mondo della sinistra extraparlamentare – pubblica il libro-controinchiesta intitolato La strage di Stato, che diventa un best seller.
È un libro militante che ha un grande pregio: è come un mattone che spacca un vetro e permette di far entrare aria fresca. Dice infatti che su Piazza Fontana le autorità stanno raccontando cose che non stanno in piedi, che c’è una macchinazione, un depistaggio, una mano “nera” e ci sono disegni più grandi. Però lo Stato, in linea con la prospettiva della sinistra rivoluzionaria, è dunque rappresentato come un monolite. Una visione falsata.
Al di là del libro, “strage di Stato” resta l’espressione più potente e dirompente per dire che c’è una mano dello Stato che non solo ha coperto i terroristi neri, ma ha strumentalizzato le stragi. Ora: il tema del depistaggio è una verità, ma l’espressione va storicizzata. Tutto quello che sappiamo delle stragi lo dobbiamo al fatto che c’è stato un pezzo di Stato – tra cui magistrati e ufficiali di polizia giudiziaria – che hanno tirato fuori le vere piste e smascherato i servitori dello Stato infedeli.
Lo Stato è per natura policentrico, tutte le democrazie occidentali hanno al loro interno varie anime che a volte si scontrano tra loro.
Nel libro poni moltissimo l’accento sui depistaggi. In merito si è sempre parlato – ed ecco un’altra espressione famosa – dei cosiddetti “servizi segreti deviati”. Ma i servizi erano davvero deviati? Oppure erano “servizi-servizi” che operavano per altri fini (anche ideologici) e rispondevano a una sorta di “doppia lealtà”?
Durante la Guerra fredda L'Italia aveva una posizione strategica importantissima. Avevamo sopra la testa una Germania divisa in due; noi eravamo interi, ma eravamo una terra di confine. Se mai ci fosse stata un’invasione [dell’Unione Sovietica] sarebbero arrivati subito da noi travolgendo l’Austria neutrale. Non era un caso che il Veneto fosse pieno di basi militari; così come non era un caso che Ordine Nuovo fosse molto forte in Veneto.
L’Italia era importantissima e gli americani non volevano un golpe in Italia – i documenti statunitensi sono chiari. Volevano invece un'Italia tranquilla, centrista, dove i comunisti erano tenuti lontani dal governo (che avrebbe comportato un accesso privilegiato alle informazioni militari, tra le altre cose). Non dovevano nemmeno avvicinarsi alle stanze dei bottoni.
Facendo parte di uno schieramento internazionale, i nostri servizi segreti sono nati nel segno di una “doppia lealtà”. Nel senso che c’era una Costituzione che fissa dei principi a tutela dei cittadini e delle libertà; poi però c’erano anche le necessità della Guerra fredda. “Doppia lealtà” significava lealtà non solo alla Costituzione, ma anche al principio fondante dello schieramento atlantico: l’anticomunismo.
Se noi andiamo a leggere le testimonianze dei generali, oppure le relazioni dei convegni degli ambienti militari che si dedicano alla “guerra non ortodossa”, vediamo una rappresentazione dell’anticomunismo che assomiglia a quella del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Veniva detto testualmente che la “Terza guerra mondiale” era già cominciata e che i comunisti stavano cercando surrettiziamente di prendere il potere.
A quel punto si capisce che proteggere dei terroristi neri che agivano per produrre un contraccolpo conservatore rientrava appieno nella logica della “doppia lealtà”. Parlare di “deviazioni” è insomma un po’ difficile, perché la “normalità” era per gran parte questa “doppia lealtà”.
Penso che gli effetti più devastanti dei depistaggi abbiano riguardato la strage di Bologna, su cui ancora adesso pesa un grumo piuttosto denso di false convinzioni – tipo che Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono innocenti, che i Nar non c’entrano, che non c’era motivo per cui la destra eversiva facesse quell’attentato, che sono stati i palestinesi, e così via. Ecco: oltre ai depistaggi, si sono innescati altri meccanismi di rimozione?
Per Bologna, le operazioni di depistaggio sono state massicce. Nella regia e nel depistaggio di quella strage è stato protagonista un gruppo di potere occulto – la loggia massonica P2 – che all’epoca aveva penetrato in profondità i principali centri di potere, tra cui i servizi segreti.
Sono stati condannati per depistaggio non solo il capo della P2 Licio Gelli, ma anche due ufficiali dei servizi, di cui uno era proprio piduista. E noi sappiamo che il depistaggio su Bologna comincia proprio con la P2, con un’indicazione di Gelli. Di nuovo: non si doveva capire la matrice. L’ultimo processo, ancora in corso, ha ricostruito su base documentale il ruolo di Gelli come mandante-finanziatore della strage.
Il discorso pubblico su Bologna però rimane complicato per diversi motivi. Primo: abbiamo i terroristi Mambro e Fioravanti [condannati in via definitiva per la strage del 2 agosto], che hanno anche compiuto molti attentati stile Brigate Rosse – ossia attentati mirati contro individui e rivendicati. Quindi loro hanno detto: non siamo stati noi a fare Bologna, non c’entra niente con la nostra storia. E la loro narrazione, reiterata e insistita, è stata molto efficace.
Con gli anni, tuttavia, è venuto fuori che non erano così “spontaneisti”, puri, ribelli e antisistema come volevano raccontare. Uno dei loro camerati più stretti, Gilberto Cavallini, [condannato in appello per la strage nel 2023] si era formato nell’ambiente di Ordine Nuovo in Veneto, quello delle “vecchie” trame. Poi avevano legami strettissimi con Massimo Carminati e quindi con la Banda della Magliana, a sua volta collegata alla criminalità organizzata di stampo mafioso e ai servizi segreti.
Più in generale, sappiamo che nell’80 l’arcipelago della destra eversiva di cui i Nar erano parte ancora coltivava l’idea stragista: sia perché colpire la massa e il “gregge” era un’idea della destra; e sia perché – e questo viene fuori da un ufficiale dei servizi che raccoglie voci all’interno dell’ambiente della destra eversiva – c’era l’idea che un attentato avrebbe prodotto un'ondata di repressione tale da “cementare" questo mondo. Sembra paradossale, ma era anche un’idea delle Brigate Rosse – il “tanto meglio, tanto peggio”. Più è duro lo scontro, più acceleri il punto di rottura.
Nell’ultimo processo sono inoltre venute fuori delle intercettazioni telefoniche impressionanti, in cui si sente Carlo Maria Maggi (condannato per la strage di Brescia) dire che il “botto di Bologna” serviva, tra le altre cose, a distrarre l’attenzione dalla strage di Ustica che, ricordiamolo, era il frutto di un “cielo di guerra” non dichiarato. La verità su Ustica avrebbe creato enorme difficoltà all’alleanza atlantica, in un momento in cui la Guerra fredda si era riaccesa e Italia restava centrale dal punto di vista strategico: si dovevano infatti piazzare i cosiddetti “euromissili” nella base di Comiso.
La P2 ha alimentato una confusione indecifrabile su questo attentato; e va detto che sono riusciti molto bene a creare questo effetto. Hanno potuto farlo anche perché, all’epoca, la loggia di Gelli aveva esteso al massimo la sua influenza all’interno delle forze di sicurezza, in ambito politico e governativo e negli ambienti influenti dal punto di vista economico e dei media.
In secondo luogo, la complessità del quadro internazionale ha fatto sì che tutto il mondo che simpatizza per la destra abbia cercato “piste internazionali”. E quella che va per la maggiore è quella dei palestinesi.
Ora: c’era effettivamente un accordo [il cosiddetto “Lodo Moro”] rimasto in vigore per molti anni, anche oltre il 1980, per cui i terroristi palestinesi potevano muoversi sul suolo italiano e trasportare armi. Ma il terrorismo palestinese di quegli anni agiva in modo molto diverso da quello nero: faceva dirottamenti o azioni eclatanti per colpire Israele e obiettivi legati alla causa palestinese. Non commetteva stragi indiscriminate.
Ed è del tutto infondata la tesi della “valigia di esplosivo” scoppiata per caso di cui ha parlato, tra gli altri, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: le perizie hanno accertato che l’esplosivo non era instabile. C’è stato un innesco; l’esplosione era voluta.
Penso che tra le letture dietrologiche di segno opposto – quella del “grande vecchio” da un lato, e quella che nega l’esistenza di una strategia anticomunista complessiva dall’altro – la via per parlare di questi argomenti in maniera completa e complessa sia molto stretta. Per chiudere, dunque: tu citi l’ex magistrato Giovanni Tamburino, secondo il quale sulle stragi si è sempre cercato di “rendere difficile una verità non difficile”. Come possiamo tornare a renderla “non difficile”?
È interessante notare che il termine “dietrologia” in Italia compare nel 1974 ma di diffonde soprattutto dopo il delitto Moro. Tra il 1969 e il 1974 c’è una grande confusione, ma grazie a quel tragico granello che inceppa il meccanismo – che è la fine di Pinelli – e altri elementi scoperti grazie alle indagini viene fuori una cosa terribile: che c’è stata effettivamente un’azione coperta a fini di provocazione, usando anche degli infiltrati in questi gruppi, con la complicità dei servizi segreti. Quindi non si parla di “dietrologie”: sono scoperte sconcertanti.
Questo è il dato di partenza: poi ci mancano dei pezzi, ma questo è il dato. Le dietrologie sono diventate di moda rispetto a quello che non si riusciva a capire e spiegare rispetto alle Brigate Rosse; quanto allo stragismo, il problema è che sono venute fuori delle cose troppo scomode.
E il problema è anche e soprattutto il livello politico italiano: noi non abbiamo elementi sufficienti per chiarire in modo definitivo se i servizi segreti italiani, e in che misura, tenevano al corrente almeno una parte della classe di governo italiana.
A livello statunitense sappiamo che sussistevano indicazioni di massima, variamente interpretabili a livello locale. I rapporti tra terroristi neri e servizi segreti (anche esteri) avvenivano nelle “periferie” dell’Impero. Sin dal 1947-1948, però, il National Security Council degli Usa prescriveva che le “operazioni coperte”, condotte per condizionare il quadro politico di altri paesi, dovevano consentire il “diniego plausibile” da parte del governo: in parole povere, non lasciare prove e tracce documentali.
Le dietrologie e i complottismi proliferano per cercare delle spiegazioni alternative rispetto ai buchi. Poi, è chiaro: il bisogno umano di creare il grande Satana o il grande colpevole, e di rendere tutto chiaro, ha prodotto delle schematizzazioni – tipo “la strage di Stato”, o “le stragi le ha fatte la CIA”. Io, da storica, non posso adottare degli “slogan”: ripercorro le evidenze per esempio dei contatti tra terroristi neri e personale delle basi militari, suggerisco di parlare di “stragismo con coperture istituzionali”, eccetera eccetera.
Il fatto è che comprendere la realtà storica richiede l’abituarsi a stare un pochino scomodi, a capire che non ci sono spiegazioni semplici.
Lo stragismo è una storia di provocazioni, attentati “false flag”, depistaggi messi in atto dai servizi segreti… cose che non c’entrano con il complottismo. Credo sia interessante notare che in Italia, i veri complotti – come la macchinazione contro gli anarchici, i legami tra terroristi neri e servizi oppure la P2 – sono venuti nel corso di indagini ordinarie, nessuno stava cercando un complotto!
La storia, insomma, sembra insegnarci che il complotto vero lo trovi se non stai cercando un “grande disegno”.
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