Gli eliminazionisti del kebab
Come il negazionismo del genocidio di Srebrenica si è fuso con le teorie del complotto e i meme di estrema destra, diventando un pericoloso mito politico.
Benvenute e benvenuti alla puntata #24 di COMPLOTTI!, la newsletter sulle teorie delle complotto che ti porta dentro la tana del Bianconiglio.
Quello di Srebrenica è stato il primo genocidio compiuto sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale. Tuttavia, la memoria di quella violenza spaventosa è stata macchiata sin da subito da forme esplicite di negazionismo – soprattutto da parte serba e serbo-bosniaca.
Col passare degli anni, la questione è andata via via peggiorando: e ora, la negazione del genocidio va di pari passo con le teorie del complotto sulla “grande sostituzione etnica” e via dicendo. Visto che questa settimana è stato condannato l’ex comandante Ratko Mladić, oggi ripercorro l’inquietante parabola di questo mito tossico.
(Questa puntata è pubblicata anche sul blog collettivo Valigia Blu.)
L’orgoglio della Repubblica serba
A 26 anni di distanza dal primo mandato di cattura – e a tre anni e mezzo dalla sentenza di primo grado – l’8 giugno del 2021 Ratko Mladić è stato definitivamente condannato all’ergastolo dal Mict (il Meccanismo residuale del Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini nella ex Jugoslavia, che a gennaio del 2018 ha sostituito l’ICTY).
Mladić, catturato nel 2011 dopo ben 16 anni di latitanza indisturbata, è stato il comandante di stato maggiore dell’esercito serbo bosniaco (Vrs) dall’inizio alla fine della guerra. In quella veste è stato ritenuto colpevole di aver ordinato e materialmente compiuto il genocidio di Srebrenica (in cui sono stati uccisi più di ottomila bosgnacchi, bosniaci musulmani, tra il luglio e l’agosto del 1995) e altri crimini di guerra – tra cui persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, atti disumani, trasferimenti forzati e attacchi illegali ai civili.
Nel corso dell’udienza Mladić è rimasto completamente in silenzio. Non era andata così nel 2017: alla lettura del dispositivo aveva gridato che “sono tutte menzogne” e rivolto pesanti insulti ai familiari delle vittime.
Quando l’ex militare serbo-bosniaco era ancora un ricercato, la procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia Carla Del Ponte lo aveva definito “una persona molto, molto pericolosa”. Nel commentare la sentenza d’appello l’attuale procuratore capo del Mict, il magistrato belga Serge Brammertz, ha detto che il nome di Mladić finirà “nella lista delle figure storiche più perverse e barbare”.
Ma non tutti la pensano così. In Serbia e nella Republika Srprska, una delle due entità che compongono la Bosnia ed Erzegovina disegnata dall’Accordo di Dayton del 1995, Mladić non è considerato né il “macellaio della Bosnia” né “il boia di Srebrenica”: è un eroe di guerra che si è battuto per il suo popolo, ed è stato ingiustamente accusato da istituzioni internazionali anti-serbe.
Il giorno del verdetto, un’organizzazione serbo-bosniaca ha proiettato nella piazza centrale di Bratunac – una città in Bosnia a dieci chilometri da Srebrenica – un documentario apologetico di Mladić che ripercorre la sua vita dall’infanzia fino al sodalizio criminale con Radovan Karadžić, l’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina condannato anche lui all’ergastolo.
L’indomani, alcuni tabloid serbi hanno scritto a caratteri cubitali che “Mladić sarà per sempre un eroe serbo” e cose di questo tenore. A Banja Luka, la capitale della Republika Srprska, è apparso uno striscione con la scritta “Non rispettiamo le sentenze dell’Aia / Sei l’orgoglio della Repubblica serba”. Come ha notato il giornalista Aleksandar Brezar, c’è un dettaglio parecchio insidioso: la dicitura “Repubblica serba” rimanda al parastato della guerra civile jugoslava, e non all’attuale entità amministrativa serbo-bosniaca.
La celebrazione di Mladić, Karadžić e altri artefici del genocidio contro i bosgnacchi è la diretta conseguenza di quello che lo studioso Hariz Halilovic ha chiamato “trionfalismo”: si parte dalla negazione della realtà storica e si arriva, per l’appunto, alla glorificazione dei responsabili e della loro eredità – ossia un territorio “etnicamente pulito”.
Questa dinamica è radicatissima sia in Serbia che nella Republika Srprska, dove persino il sindaco di Srebrenica Mladen Grujičić (il primo serbo-bosniaco eletto a capo del consiglio comunale) ha messo pubblicamente in dubbio l’esistenza del genocidio.
L’istituzionalizzazione del negazionismo è merito soprattutto del presidente serbo-bosniaco Milorad Dodik, ininterrottamente al potere dal 2006. Giusto per dare un’idea, anche per lui Mladić non è un “criminale”; e anzi, è “inaccettabile per il popolo serbo” che sia considerato tale.
Nell’arco degli ultimi 15 anni, ha scritto il ricercatore Hikmet Karčić su Euronews, Dodik è “riuscito a create una rete di storici revisionisti e negazionisti con l’aiuto dei suoi mentori e alleati a Belgrado”. Questa rete, continua Karčić, promuove teorie del complotto e “contronarrazioni” completamente slegate dai fatti storici; è inoltre “forte, vasta, ben organizzata e permea tutta la società – inclusi il settore accademico, politico e culturale”.
Anche se Karadžić e Mladić sono stati sconfitti in tribunale, ha sottolineato Alfredo Sasso su Osservatorio Balcani e Caucaso, “la mobilitazione a favore della loro reputazione, e della loro visione del mondo, si rafforza nel loro paese d’origine [e] si apre persino a nuovi spazi: si internazionalizza grazie all’esasperazione nativista che sta marcando questa epoca”.
Il mito tossico del genocidio come “legittima difesa” contro “l’invasione islamica”
L’estrema destra europea è sempre stata attratta dal conflitto jugoslavo, fino al punto da prendervi direttamente parte.
Durante la guerra migliaia di volontari si sono arruolati nelle file delle unità internazionali dell’esercito croato e in quello serbo-bosniaco. Uno dei casi più eclatanti riguarda la Guardia Volontaria Greca (Gvg), integrata nella Brigata Vlasenica del corpo d’armata Drina delle forze armate serbo-bosniache – tra le prime ad espugnare Srebrenica nel 1995.
Secondo un’inchiesta del collettivo greco XYZ Contagion, tra i 10 e 12 volontari della Gvg (in tutto erano circa un centinaio) hanno preso parte al genocidio. Lo stesso Mladić aveva ordinato alle sue truppe di issare la bandiera della Grecia per onorare i “greci coraggiosi che combattono al nostro fianco”.
La Gvg era formata in larghissima parte da neonazisti di Alba Dorata (tra cui alcuni componenti del comitato centrale del partito) che volevano “dare man forte non al popolo serbo, ma ai loro camerati ‘cetnici’”.
In un’intervista di qualche anno fa, il membro della Gvg Michalis Mavrogiannakis aveva detto che “come molti altri volontari greci io faccio parte di Alba Dorata, ed è per questo sono andato in Bosnia”. Il sergente della Gvg Spyros Tzanopoulos era stato ancora più esplicito: "da volontari di Alba Dorata al fronte bosniaco, abbiamo combattuto per l'Europa che appartiene alla razza bianca, [...] un'Europa libera da musulmani ed ebrei".
Nell’inferno bosniaco, inoltre, sono state forgiate molte tendenze ideologiche che sarebbero diventate predominanti diversi anni dopo. Già negli anni Novanta, ha spiegato il politologo Jasmin Mujanović a The Intercept, la causa dei nazionalisti serbi
era uno degli argomenti preferiti dell’estrema destra europea. Per loro, la Bosnia era l’emblema di quello che doveva succedere nel continente a livello politico. Dopo la Guerra fredda, infatti, la grande battaglia ideologica si era spostata sui temi della nazione e dell’identità. Il punto d’arrivo era proprio una guerra etnica genocidaria – una guerra “razziale”, per usare il loro linguaggio. Di conseguenza, hanno continuato a sostenere e difendere chi ha ideato e compiuto quel genocidio.
D’altro canto, la propaganda serba e serbo-bosniaca ha usato argomentazioni dello stesso tenore prima, durante e dopo il conflitto. I bosgnacchi sono stati descritti come dei serbi autoctoni che avevano “abbandonato” e “tradito” la loro etnia convertendosi all’Islam; di conseguenza, l’esercito della Bosnia-Erzegovina era una versione moderna di quello ottomano – pieno di fondamentalisti assetati di sangue che volevano instaurare uno Stato islamico (pur essendo stata riscontrata la presenza di volontari jihadisti, non hanno mai rappresentato più dell’un percento delle forze armate bosniache).
Questa, del resto, era anche la versione propugnata da Karadžić: “i musulmani non vogliono trasformare la Bosnia in una confederazione, vogliono prendersela tutta per loro. Vogliono dominarla attraverso il loro alto tasso di natalità. […] E siccome questa strategia va contro i serbi-bosniaci, l’abbiamo contrastata difendendo i nostri villaggi”.
La rimozione del genocidio e della pulizia etnica – scrive Hikmet Karčić – restituisce un quadro storico totalmente alterato, in cui i serbo-bosniaci si sono legittimamente difesi contro gli “invasori” musulmani.
Non è un caso che il negazionismo sul genocidio di Srebrenica sia esploso dopo l’11 settembre – anche e soprattutto al di fuori dei Balcani. Allo stesso tempo, teorie del complotto negazioniste risalenti agli anni Novanta sono diventate improvvisamente spendibili, sfondando in maniera inaspettata nel mainstream.
Come ha ricostruito il giornalista Peter Maass, ce n’è una in particolare che ha influenzato l’opinione di due giurati nell’assegnare il premio Nobel per la letteratura del 2019 a Peter Handke – lo scrittore autriaco noto per le posizioni apologetiche nei confronti del regime di Slobodan Milošević, e negazioniste del genocidio di Srebrenica.
Dopo le feroci polemiche suscitate dalla decisione, Eric Runesson e Henrik Petersen hanno rivelato di aver basato il loro giudizio su due libri scritti in tedesco e mai tradotti. Entrambi i testi sostengono che la Ruder Finn Global Public Affairs – un’agenzia americana di pubbliche relazioni – avesse messo in piedi una campagna di discredito nei confronti dei serbi per influenzare l’opinione pubblica mondiale. La tesi girava soprattutto nei forum dei nazionalisti serbi e serviva a minimizzare gli orrori dei campi di concentramento, ma era talmente infondata da non essere mai stata presa sul serio.
Sfruttando il clima islamofobo post-attentato alle Torri Gemelle, insomma, la macchina propagandistica serbo-bosniaca ha avuto gioco facile nel dipingere il conflitto civile come una “guerra al terrore” ante litteram, arrivando a dire che le vittime di Srebrenica non erano bosgnacchi inermi ma “terroristi” in potenza.
Con una simile operazione di revisionismo, dunque, le guerre jugoslave sono diventate il primo capitolo del nuovo “scontro di civiltà” tra il cristianesimo e l’islam; e quello della “Grande Serbia” non era un piano d’espansione nazionalista, ma la prima linea di difesa costruita per proteggere l’Europa dall’“invasione islamica”.
All’inizio degli anni Dieci del Ventunesimo secolo il negazionismo del genocidio di Srebrenica si è saldato con altre teorie del complotto come Eurabia, la “grande sostituzione etnica” e il “genocidio dei bianchi”. E non solo: all’incirca nello stesso periodo, ha iniziato a comparire nei manifesti dei terroristi neonazisti.
Il revival del genocidio bosniaco
Quello dell’attentatore norvegese Anders Behring Breivik, ad esempio, è zeppo di riferimenti alle guerre jugoslave. Come ricostruisce un articolo dell’Economist, il termine “Kosovo” compare 143 volte, “Serbi” 341, “Bosnia” 343 e “Albania” 208.
Rifacendosi alla propaganda nazionalista serba degli anni Novanta, il testo dipinge i musulmani albanesi e i bosgnacchi come degli “jihadisti” che hanno dichiarato una “guerra demografica” contro i serbi. Se quest’ultimi non avessero reagito, scrive, ci sarebbero stati dei “mini-Pakistan in ogni capitale dell’Europa occidentale”.
Per questo motivo, Radovan Karadžić “sarà sempre considerato e ricordato come un crociato e un eroe di guerra europeo” per aver cercato di liberare la Serbia dall’Islam. Breivik esprime pure il desiderio di incontrarlo, e scrive che nella prossima “guerra civile europea” – che pensava di innescare con i massacri di Oslo e Utøya – uno dei fronti principali saranno i Balcani, da cui tutti i musulmani devono essere “deportati” o (se rifiutano) “annientati”.
Anche lo stragista di Christchurch Brenton Tarrant, ispirato da Breivik, era ossessionato dalla causa nazionalista serba. I fucili e i caricatori usati per l’eccidio erano ricoperti con i nomi dei condottieri serbi e montenegrini che avevano combattuto la battaglia della Piana dei Merli nel 1389 contro gli ottomani.
Mentre si dirigeva in macchina verso la moschea di Al Noor, Tarrant stava ascoltando la canzone di propaganda “Karadžić, guida i tuoi serbi” (o “Dio è serbo e ci proteggerà”), composta nel 1993 da quattro soldati per alzare il morale delle truppe. Negli ultimi anni il canto si è tramutato in un meme per i neonazisti e per l’alt-right, conosciuto con il nome di “Remove Kebab” – cioè “eliminare il kebab”, dove “kebab” sta per musulmano.
Nel suo manifesto intitolato “The Great Replacement” (“La grande sostituzione”), l’attentatore riprende alcuni passaggi sulla Serbia dal testo di Breivik e si definisce un “eliminazionista del kebab”.
In altre parole, il genocidio di Srebrenica e la pulizia etnica nelle guerre jugoslave fanno ormai parte dei miti politici dell’estrema destra contemporanea – al pari del Terzo Reich, degli Stati Confederati d’America, della Rhodesia e dell’apartheid sudafricano.
Il problema è che questo inquietante revival va ben oltre il recinto dell’estrema destra, visto che le idee degli architetti del genocidio bosniaco hanno subdolamente attecchito in Occidente a quasi mezzo secolo dalla sua esecuzione.
“In entrambi i lati dell’Atlantico”, sottolinea il ricercatore Jasmin Mujanović in un articolo su Newlines, “la svolta di partiti istituzionali di centrodestra verso le politiche identitarie paranoiche, unite al feticismo demografico, rimanda ai discorsi ideologici elaborati dai nazionalisti serbi negli anni Ottanta e Novanta”.
E come insegna la storia, la discriminazione dei musulmani dispiega i suoi effetti anche nei confronti di tutte le altre minoranze: c’è infatti una linea di demarcazione molto sottile tra l’islamofobia e la disumanizzazione generalizzata, che porta inevitabilmente alla violenza.
Non riconoscerlo e far finta di nulla, conclude Mujanović, comporta un rischio enorme: quello che “il recente passato della Bosnia possa plasmare il nostro futuro collettivo”.
Articoli e cose notevoli che ho visto questa settimana:
Secondo un rapporto del Senato americano, le forze dell’ordine e l’intelligence hanno clamorosamente ignorato la massa di post sui social in cui si pianificava l’assedio al Congresso (David Smith, Guardian)
Un’unità speciale della polizia di Francoforte è stata sciolta dopo che una ventina agenti sono stati beccati a frequentare chat di estrema destra (Deutsche Welle)
Siccome nella scorsa puntata li aveva nominati, ecco un ritratto dei “Pretoriani del Primo Emendamento” – la nuova milizia di QAnon formata da ex militari convinti che gli Stati Uniti saranno presto attaccati dalla Cina e dagli Antifa (Will Sommer, The Daily Beast)
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